
Immersi come siamo nell’era Meloni ne abbiamo forse dimenticato la genesi. A rinfrescarci la memoria è arrivato il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, in un recente incontro pubblico raccontato da Antonio Padellaro sulle pagine del “Fatto quotidiano”. L’ex magistrato è da vent’anni al centro della politica pugliese e delle vicende del Partito democratico. Prossimo alla scadenza del suo ultimo mandato presidenziale (ma non è pronto al pensionamento e punta a tornare in Consiglio regionale da “frate semplice”, ambizione tutt’altro che gradita al suo potenziale successore Antonio Decaro), la sua non è una testimonianza per sentito dire, quindi. Cosa ha raccontato Emiliano, secondo il resoconto (non smentito) dell’ex direttore di “Unità” e “Fatto”?
Al tramonto della diciottesima legislatura, quando l’ipotesi di una coalizione larga da contrapporre alle destre stava affondando per la rottura insanabile fra Pd e Movimento 5 Stelle, per la pregiudiziale posta dal Nazareno, fondata sulla mitica “agenda Draghi”, Emiliano propose a Giuseppe Conte e Beppe Grillo un “accordo di desistenza”, una sorta di patto di non concorrenza sui collegi uninominali: “In Puglia avremmo vinto dappertutto”, sostiene. Ottenuto il via libera dei due capi dei 5 Stelle, provò a convincere Enrico Letta, allora segretario democratico, regista anche della goffa operazione dell’alleanza abortita con Carlo Calenda. L’inflessibile custode dell’ortodossia draghiana, la cui astuzia strategica è rimasta incompresa dagli elettori nelle urne del 25 settembre 2022, gli rispose: “Non facciamo pasticci. Non mi complicare la vita”.
“Non se ne fece nulla e sono convinto che la volta scorsa abbiamo perso le elezioni perché si decise a tavolino di far vincere Giorgia Meloni”: quella di Emiliano è un’accusa sanguinosa, per un partito che, a giorni alterni, lancia allarmi per la minaccia che la coalizione di destra-centro rappresenta per la tenuta democratica della Repubblica e per il complesso dei diritti dei cittadini. Allarmi peraltro non ingiustificati: delle ambizioni “costituenti” della maggioranza meloniana “terzogiornale” ha parlato più volte: per esempio qui e qui . Si tratta di un’accusa sostanzialmente condivisa da una parte del corpo militante e dei simpatizzanti del Pd, se consideriamo che l’avvento di Elly Schlein alla segreteria del partito ha rappresentato una domanda di discontinuità, figlia anche di quella spericolata manovra di separazione netta dal Movimento 5 Stelle (considerato forse un po’ schematicamente l’unico colpevole della crisi del governo Draghi), con conseguente secca sconfitta elettorale.
Stupisce che le parole così pesanti di Emiliano siano rimaste confinate alle pagine del “Fatto” e, almeno finora, non abbiano acceso il fuoco della classica polemica estiva nel Pd. Tuttavia, dato che si parla delle vicende che hanno condotto l’Italia nella attuale congiuntura politica, qualche nota a margine sembra utile redigerla. La prima: Emiliano dice cose che paiono completamente infondate dal punto di vista strettamente tecnico. La desistenza era una opzione possibile con la vecchia legge elettorale “mattarellum”, la prima dell’era maggioritaria; con l’attuale pessima normativa, denominata “rosatellum”, la connessione obbligatoria e automatica fra il voto nell’uninominale e quello alla coalizione nel proporzionale impedisce il voto disgiunto, e dunque le intese a livello di collegio fra partiti e gruppi di partiti che non siano già coalizzati fra loro. L’unico senso che si può attribuire alle dichiarazioni del presidente pugliese è che l’idea fosse quella di una coalizione elettorale pensata come una desistenza: ovvero Pd e 5 Stelle, insieme con le forze minori, avrebbero potuto siglare una sorta di intesa tecnica, presentandosi come alleanza al proporzionale e spartendosi effettivamente le candidature nei collegi con l’intento di limitare lo strapotere elettorale dell’alleanza avversa. Il tutto senza poter garantire, in caso di vittoria, la nascita di un governo comune, avendo programmi e intenzioni dichiaratamente divergenti (agenda Draghi e sostegno militare all’Ucraina, contro fine dell’austerità e soluzione diplomatica con la Russia). Soluzione creativa ma quasi fantascientifica, all’epoca. Non va dimenticato che, a due mesi dalle elezioni, i sondaggi davano il Movimento sull’orlo della soglia critica del 10%, e che non erano in pochi, nei gruppi dirigenti del centrosinistra e nel consueto coro di accompagnamento degli opinionisti amici, a scommettere sulla fine o comunque sulla definitiva marginalizzazione della creatura un tempo “grillina” e oggi “contiana”.
Dove la frase di Emiliano “si decise a tavolino di far vincere Giorgia Meloni” ritrova un senso politico più concreto e una maggiore attinenza alla realtà, però, è nella vicenda della legge elettorale. Quando il Pd accondiscese a sostenere, nel quadro del patto per la nascita del Conte 2, la sciagurata riforma del taglio del numero dei parlamentari, cara a Luigi Di Maio e a Beppe Grillo, era considerata parte dell’intesa anche l’idea di un contemporaneo aggiustamento della legge elettorale in senso proporzionale, per evitare i rischi della formazione di maggioranze “costituzionali” in un parlamento meno articolato e pluralistico dei precedenti. Poi però il Conte 2 fu fatto cadere, probabilmente anche per esigenze di riallineamento internazionale, le cui conseguenze estreme stiamo probabilmente vivendo in era Trump: e allora le proposte di riforma elettorale, già depositate in parlamento, furono destinate a un binario morto.
Qui corre l’obbligo di citare la maliziosa lettura del “Foglio”, quotidiano di sicura fede draghiana e perciò molto più affettuoso col Pd nell’era Letta di quanto non lo sia ora con la segreteria Schlein. Celebrando la nascita del “melonlettismo”, così registrava l’incontro fra l’allora leader dem e l’attuale presidente del Consiglio, allora solo leader in pectore dell’alleanza di destra: “Letta e Meloni hanno infatti siglato il ‘patto Puskin’, la garanzia che il loro duello non avverrà sotto il fuoco della legge proporzionale”, per cui “sposati da Vespa, il loro Fra Cristoforo, Letta e Meloni si sono ufficialmente uniti nel divorzio, si sono giurati di essere i prossimi compatibili nemici”. I risultati di questa raffinata diplomazia a difesa del bipolarismo li possiamo valutare, come cittadini ed elettori, nella cronaca quotidiana dell’azione del governo Meloni. Che sia fondata o meno l’accusa formulata dall’ex pubblico ministero Michele Emiliano.