
“E anche questo Natale… se lo semo levato dalle palle”. La citazione del primo (e a suo modo storico) cinepanettone dei fratelli Vanzina è quasi d’obbligo dopo che anche questa estate, per qualche giorno, abbiamo assistito al rituale dibattito, innescato da Antonio Tajani e da Forza Italia, sulla riforma della cittadinanza e sulla opportunità di adottare lo ius scholae, patriotticamente ribattezzato dagli azzurri ius Italiae. “Non passerà mai”, la reazione più garbata giunta dalla Lega, che ha poi incassato una replica dei forzisti, con le stesse identiche parole ma sul tema del terzo mandato per i presidenti regionali (recentemente affrontato qui).
Del resto, la proposta sulla cittadinanza è estranea al programma della coalizione governativa, come ha ricordato Giorgia Meloni, mettendo la parola fine al consueto rito stagionale del piccolo temporale estivo, peraltro senza suscitare particolare scandalo tra gli azzurri. I quali, per bocca del loro leader, hanno promesso di tornare a occuparsene “dopo l’estate, quando la situazione sarà, a livello parlamentare, meno ingolfata”. Affermazione che costituirebbe una notizia, perché potrebbe essere interpretata come l’annuncio di un rallentamento della produzione incessante di decreti-legge da parte della macchina inarrestabile di palazzo Chigi. Ipotesi che sarebbe davvero azzardato formulare, dopo quasi tre anni di governo Meloni.
Solo scaramucce, quindi? Non del tutto, le tensioni ci sono e sono destinate a produrre scintille almeno fino a quando la partita delle candidature alle presidenze delle Regioni non sarà chiusa, con Fratelli d’Italia che preme soprattutto sulla Lega per un riequilibrio al Nord, e Forza Italia che spera ancora nel colpaccio in Campania, dove la coalizione Pd-5 Stelle deve fare i conti con l’incognita De Luca. E, in vista delle elezioni politiche del 2027, una esigenza di posizionamento politico e visibilità resterà la priorità dei partiti di maggioranza, in particolare per i due soci di minoranza dell’alleanza di destra-centro, raramente confortati dai sondaggi di opinione, nonostante la stabilità dei consensi per il governo e la presidente del Consiglio.
Per ora, tuttavia, le strade della coalizione tornano a dividersi dove fa meno male: in Europa. A poche ore dal voto dell’europarlamento, sulla mozione di sfiducia indirizzata a Ursula von der Leyen, si dà per scontato il voto contro la presidente della Commissione Ue da parte della Lega, assieme a tutto il gruppo dei “patrioti”, la difesa compatta (insieme, tra gli altri, ai socialisti e democratici) da parte dei popolari, dei quali Forza Italia è il riferimento italiano, e qualche imbarazzo tra i Fratelli d’Italia, visto che il gruppo dei conservatori e riformisti, al quale fa capo il partito della premier, voterà un po’ di qua e un po’ di là.
Altro teorico fattore di divisione è la faida fra Donald Trump ed Elon Musk: in passato Salvini e Meloni hanno fatto a gara ad accreditarsi come amici dell’imprenditore di origine sudafricana, ma dopo il suo annuncio del prossimo varo di America Party, un partito “alternativo” al bipolarismo democratico-repubblicano, solo Roberto Vannacci, il generale ultraconservatore vicesegretario della Lega, si è esposto con una plateale apertura di credito. Per Fratelli d’Italia e per palazzo Chigi, oggi, sarebbe impensabile smarcarsi dal presidente statunitense dopo la rottura fra i due “uomini forti” d’oltreoceano.
Scaramucce e tensioni a parte, per il momento la maggioranza tiene, e resta garantita la tenuta dei progetti principali degli alleati: il premierato non è ancora tramontato, la riforma della giustizia procede a pieno ritmo, sull’autonomia differenziata, azzoppata dalla Consulta, si tenta un rilancio col nuovo disegno di legge Calderoli. Si riparla di legge elettorale per ridimensionare il rischio di una futura rivincita delle opposizioni e per tenere alla frusta gli alleati. Tutto sommato, come descrizione della ragione sociale del governo Meloni resta più che realistica la foto di gruppo a villa Taverna, sotto la bandiera a stelle e strisce, dei tre leader, con l’aggiunta del presidente del Senato, Ignazio La Russa. L’ambasciatore degli Stati Uniti, Tilman Fertitta, si è sperticato in lodi per gli ospiti italiani, a partire dalla leader “forte e amica”, che ha ricambiato spiegando che i due Paesi “parlano la stessa lingua”. Un legame che alimenta “compattezza e unità” dell’Occidente, ragionamento che è sembrato un richiamo a quel ruolo di “ponte” fra Unione europea e Stati Uniti vagheggiato da Giorgia Meloni, ma finora poco visibile in concreto.
L’Italia ha “due stelle polari” – le ha fatto eco Tajani – facendo riferimento a Washington e Bruxelles, che fino a pochi mesi fa sembravano divise da un profondo fossato, le cui sponde però oggi sembrano più vicine, passato lo choc creato dall’insediamento di Trump e dalle sue aggressive quanto ondivaghe mosse sullo scacchiere globale. Nel frattempo, infatti, si registrano lo slancio entusiastico mostrato da quasi tutte le capitali europee sul tema del riarmo (vedi qui qualche nota a margine), e la resa sul tema della tassazione per le Big Tech americane, giudicata un “onorevole compromesso” dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Fra i leader dell’Europa, sembra non esserci più tanta voglia di trincea neppure sul tema dei dazi, nonostante gli allarmi reiterati dal mondo delle imprese, in Italia in particolare da Confindustria.
In un certo senso, si può ipotizzare una sorta di riavvicinamento fra le due sponde dell’Atlantico anche sul tema della guerra in Ucraina: Trump ha rinunciato a pacificarla con uno schiocco di dita, alterna l’annuncio di tagli alle forniture di armi a Kiev a promesse di nuovi invii e nel frattempo si accontenta di farne pagare il maggior costo agli alleati. Mentre lui cerca accordi diretti con la Russia su un’agenda più ampia e al tempo stesso minaccia i Brics e i loro interlocutori. Resta lecito temere che i “compromessi” che si stanno costruendo possano essere troppo costosi per quel che resta del modello sociale europeo, e per le tasche già semivuote degli elettori italiani. Ma con la benedizione dell’ambasciatore, e la perdurante benevolenza di gran parte del mondo dell’informazione nazionale, non sarà certo lo ius scholae estivo di Tajani a mettere in crisi il governo Meloni.