
Zohran Mamdani, di origini indiane, nato in Africa, ha vinto le primarie per la candidatura democratica a sindaco di New York, battendo uno stracotto Andrew Cuomo, che oltre a essere un vecchio centrista, è stato anche coinvolto in una vicenda di molestie sessuali. Mamdani è un trentatreenne, è vicino a un gruppo dichiaratamente socialista, ha un programma di aumento delle tasse per i più ricchi e di rafforzamento del welfare (anche con una politica del trasporto pubblico gratuito). Sta dalla parte dei palestinesi ed è musulmano. Ha ricevuto immediatamente il sostegno di Bernie Sanders, da sempre il senatore più a sinistra del Partito democratico, che, ultraottantenne, sta battendo il Paese all’insegna dello slogan “combattere l’oligarchia”. Per farla breve, è una buona notizia quella che arriva dal Partito democratico statunitense, che, dopo la batosta subìta dal duo Biden-Harris, sembrava scomparso dalla scena politica, ma che sta oggi ritornando al centro dell’opposizione, prima con il governatore della California, Gavin Newsom (vedi qui), che ha tutta l’aria di potere essere un prossimo candidato alla Casa Bianca, e ora con Mamdani a New York.
I centristi di varia appartenenza, interni o esterni al Partito democratico, possono storcere il naso finché gli pare. Ma il tempo dei Clinton e di un centrosinistra ipermoderato – in Italia, quello dei Prodi, dei D’Alema e dei Veltroni, tra loro in realtà più simili che differenti – è ormai trascorso. È la stessa situazione del mondo a richiedere una diversa impostazione politica. Pur senza arrivare allo slogan “socialismo o barbarie” (che è il nostro, ma potrebbe apparire a qualcuno un po’ troppo catastrofista), sotto la pressione di un’internazionale nazional-populista che minaccia la democrazia, è necessario mettere al centro di un programma di sinistra due cose, da combinare strettamente insieme: la prima è la difesa e lo sviluppo del welfare (la sanità, e in generale tutte le infrastrutture pubbliche, contro la moda ormai logora delle privatizzazioni); la seconda è quella che possiamo chiamare il momento woke.
Abbiamo già dedicato un articolo a questa tematica (vedi qui). Woke è senza dubbio un aspetto della candidatura di Mamdani. Non l’unico, ma un aspetto importante: la provenienza del personaggio dal mondo dell’immigrazione parla di questo momento woke. E se il duo Biden-Harris, con il suo appoggio a Israele e alla distruzione di Gaza, si era alienato le simpatie di una parte consistente del suo elettorato, sia giovanile sia di religione musulmana, questo è un errore che non dovrà essere ripetuto. Woke, però, è anche altro: qualsiasi rivendicazione, sia pure prepolitica, che prenda le mosse da una condizione di diseredato o di immigrato, o di minoranza etnica, di genere e così via, qualsiasi prospettiva, se si vuole, neo-identitaria – legata, cioè, a un’identità magari perfino immaginaria, nella ricerca di radici che ormai non ci sono più, come per i neri quelle della loro pregressa condizione di schiavi –, beh, tutto questo fermento ideologico è oggi un aspetto non secondario di una politica di sinistra.
La soluzione del rebus, per quanto difficile sia, sta nell’inserire questa spinta ribellistica contro l’oppressione all’interno di una politica di governo, che offra delle risposte ai ceti urbani progressisti – con tutte le loro competenze lavorative, spesso altamente qualificate in senso tecnologico e intellettuale – e, al tempo stesso, a una frammentata costellazione di interessi spesso confusi, disponibili a finire nell’astensionismo quando non a destra, che però una coscienza woke è in grado preliminarmente di orientare. È anche la riconoscibilità di una candidatura, in questo senso, a fare la differenza. E Mamdani è appunto quel candidato.