
Le guerre in corso, in cui esperienze e tecniche della società civile stanno diventando forme dirette di combattimento, ci propongono due domande di fondo: chi comanda nella società digitale (che compare nel titolo del nostro convegno)? E anche: perché il digitale? Sono le chiavi per capire come la politica, nella sua versione più alta e radicale, possa affrontare il cambio di paradigma della portata e pervasività che abbiamo davanti agli occhi da almeno mezzo secolo. Cosa ha significato la sostituzione del fordismo con la smaterializzazione dei sistemi produttivi? Cosa ha permesso l’aggregazione di gran parte dell’umanità attorno a un unico linguaggio, il digitale, un unico strumento, il computer, un’unica potenza, il calcolo? Se non cogliamo le componenti di questa condivisione, e non ne liberiamo la mistificante unilateralità imposta dal dominio dei monopoli privati a Ovest e pubblici a Est, non afferreremo la coda del drago che da tempo sta emarginando la sinistra dalla scena sociale.
Il cantiere che apriamo oggi (come ha annunciato Elisabetta Piccolotti nella sua introduzione) non può non presupporre questo passaggio: come identificare la mappa sociale di forze e interessi all’origine dei processi di digitalizzazione, per capire quali siano le figure e i segmenti di riferimento di una sinistra che si pone – anche in questo mondo tecnologico – il tema della libertà e dell’eguaglianza. È importante che si proponga una sinistra che si occupi della struttura delle nuove potenze di calcolo, affrontando il dualismo fra poteri istituzionali e potenza computazionale. Facendolo, si affronta il nodo di come il gruppo dirigente di una formazione politica possa rimettersi in discussione, aprendo una fase di autoformazione sulla nuova cultura politica che deve orientare la costruzione di un partito.
Partiamo dalla seconda domanda: perché il digitale? Mi rifaccio alla definizione di Craig Venter, un grande genetista che qualche tempo fa spiegò che la potenza computazionale non serve ai giornalisti per giocare con i social, ma serve per riprogrammare la vita umana. Le intelligenze artificiali ci stanno assediando, e dobbiamo valutarle in prospettiva, secondo quella legge di progressione geometrica che prevede (ben al di là della legge di Moore) che in pochi mesi si raddoppierà la loro capacità di elaborazione, e nei mesi successivi si moltiplicherà ancora. Lungo questo percorso, si vede la medicina diventare predittiva – ma chi comanda in quei processi che decidono chi potrà curarsi e chi no? Si vede la giustizia diventare predittiva – ma chi comanda nella riorganizzazione dei giudizi? Oppure, si vedono la pubblica amministrazione e le università delegare ai fornitori le proprie intelligenze – ma chi comanda nella transizione ai nuovi codici?
Questo è quanto oggi è in discussione. Una partita fondamentale in cui il capitalismo si pone l’obiettivo di omologare l’intera umanità unificando comportamenti e linguaggi. Una partita in cui l’etica, come scrive Kate Crawford nel suo saggio Né intelligente né artificiale, è un lusso per persone che se lo possono permettere; per tutte le altre il tema è il potere, non l’introduzione di vaghi principi di equità, quanto piuttosto la prima domanda: chi comanda? Chi comanda nel nuovo mondo, come chiedeva ingenuamente Alice nel Paese delle meraviglie, cercando di capire quale fosse la logica di quello spazio? Chi comanda negli algoritmi comportamentali? Chi comanda nella diffusione delle intelligenze artificiali? Domande semplici, che ci aiutano a capire come dovrebbe muoversi una sinistra che voglia finalmente entrare nel Ventunesimo secolo.
La tecnologia è solo una forma, il linguaggio di un nuovo sistema di relazioni sociali. Nessuna magia o sortilegio scientifico: l’automazione delle nostre decisioni è figlia dell’automazione di fabbrica, e da quella esperienza ricava la sua dialettica degli interessi, da riscoprire nel mondo ovattato a asettico del digitale. Se comandano i proprietari dei sistemi, che si sono sovrapposti a istituzioni e persino ai produttori manifatturieri nella selezione dei modelli sociali, allora il tema è: come riproporre una dialettica conflittuale per ridare forma e spazio a una politica che rimetta in discussione equilibri e primati?
Senza adeguare e aggiornare le proprie geometrie conflittuali, la sinistra diventa pura competizione amministrativa, perdendo così ogni capacità di riformulare ruoli e funzioni sociali. Proprio questa capacità, sviluppata grazie a una lotta operaia che rivendicava un nuovo modo di vivere e non solo di produrre, nel secolo scorso permise al movimento del lavoro di integrare nella sua battaglia figure professionali, ceti sociali e interessi economici inizialmente molto distanti: magistrati, giuristi, scienziati, medici, giornalisti, persino militari o poliziotti, si accostarono alla più generale mobilitazione democratica per ripensare gerarchie e comportamenti collettivi.
Oggi siamo in un mondo in cui non troviamo linguaggi o contenuti che ci permettano di porre la questione dei valori sociali – dalla proprietà all’efficienza – come variabili da adeguare alle necessità di una società che deve essere più giusta e trasparente. Da almeno quarant’anni, in Italia, siamo ai margini della trasformazione sociale che, attraverso l’automazione digitale, ha riclassificato le modalità di creare valore, sganciandole dal lavoro manifatturiero e assegnando proprio alle funzioni di intermediazione delle grandi piattaforme la fase più delicata e pregiata della valorizzazione delle merci e delle relazioni. Un passaggio che si è ulteriormente smaterializzato con l’irruzione dell’intelligenza artificiale, che ha automatizzato sia la fase dell’apprendimento sia quella delle decisioni. In questo gorgo, la sinistra deve riarticolare una sua presenza, partendo dalla rappresentanza dei soggetti che hanno interesse a mutare la qualità del meccanismo di sviluppo e della stessa innovazione. Una partita drammatica, la cui posta in gioco è il controllo non solo del dominio sociale, ma della stessa evoluzione della specie umana. Le tecnologie digitali, con la componente neurale sempre più rilevante, sono infatti strumenti che riordinano il corredo genetico della persona, oltre che interferire nelle sue facoltà psico-neurologiche. Come dare un senso collettivo a queste potenze private? Come finalizzare queste capacità per colmare le grandi lacune della civiltà umana?
Con la politica – è la nostra risposta –, cioè con una politica che trovi modelli organizzativi, capacità di rappresentanza e volontà di cambiamento per avere sufficiente potenza da contrapporsi ai nuovi poteri. Per capire cosa sta accadendo, cogliendo le contraddizioni che ci consentono di intervenire sullo scenario geopolitico dell’innovazione. Oggi abbiamo dinanzi una esemplificazione del contrasto nel modello di sviluppo tecno-capitalistico, ed è un contrasto in cui dobbiamo intervenire. Da una parte, vediamo che i proprietari dei principali sistemi di intelligenza artificiale – per esempio Sam Altman, il capo di Open AI, la società proprietaria di ChatGPT – puntano ad accreditare come unica e univoca la loro tecnologia, parlando dell’intelligenza artificiale come di una merce qualsiasi, esattamente come l’energia elettrica: una risorsa neutra a cui attaccarsi indifferentemente. Dall’altra, ci sono componenti della filiera industriale – come Jen-Hsun Huang, il ceo di Nvidia – che parlano di un proliferare di infinite versioni e modulazioni di intelligenza artificiale, che dovremmo adottare e personalizzare, in modo che ognuno possa avere la propria capacità aumentata. La sinistra deve puntare su questa seconda prospettiva e lavorare sulla contraddizione fra proprietà e decentramento. Ovviamente, questo prevede una rivisitazione delle categorie principali della nostra formazione, a cominciare dalla contrapposizione tra capitale lavoro. E lì dovremmo recuperare il Marx dei Grundrisse, che ci aiuterebbe a sentirci nel pieno del processo storico, con una nostra propria autonomia culturale.
Altro punto: i soggetti negoziali. Chi oggi può costringere la proprietà dei sistemi intelligenti a sedersi a un tavolo negoziale? Il nodo sono i dati. Le intelligenze artificiali senza i dati non esistono. E i dati, come scriveva nel suo ordine sull’intelligenza generativa l’ex presidente Biden, snobbato da una sinistra miope, sono beni comuni. Attorno a questo, va costruita una nuova cultura del conflitto. Nel convegno affronteremo tre casi tipici di possibili negoziazioni. 1) Le città, come soggetto di programmazione e di trasparenza delle decisioni, come accadde a suo tempo con la lotta contro la speculazione immobiliare mediante i piani regolatori urbani. 2) Le categorie professionali che, nella sanità o nel giornalismo, devono co-progettare le proprie strategie digitali. 3) Le università in quanto centri di accreditamento e formazione di una reputazione scientifica.
Organizzare un partito in grado di essere motore e incubatore di questi processi negoziali significa poter riprendere la parola nel secolo della dittatura degli algoritmi, per dirla con Paolo Zellini, un grande matematico italiano. Il cantiere che parte con questo convegno offre interlocutori e spazi per dare forza a questa ambizione.