
Dopo giorni di escalation, si è arrivati a un fragile cessate il fuoco tra Iran e Israele. Una tregua ottenuta grazie a una complessa combinazione di pressioni diplomatiche e interessi economici. Il presidente iraniano, Masud Pezeshkian, ha annunciato la fine dei bombardamenti, una notizia accolta con favore dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che ha dichiarato: “Ora il cessate il fuoco anche negli altri conflitti nella regione”. Putin ha rivendicato un ruolo da mediatore, subito smentito da Trump; mentre è certo l’intervento del Qatar, storico canale di comunicazione tra Stati Uniti e Iran. Tuttavia, la vera motivazione dietro l’accordo sembra risiedere altrove: nell’oro nero. L’impennata dei prezzi del petrolio, seguita da un crollo immediato dopo l’annuncio del cessate il fuoco, rivela quanto le dinamiche economiche abbiano inciso sulle scelte politiche.
Già nel 2023, gli attacchi degli Huthi alle navi mercantili nello stretto di Bab-el-Mandeb – iniziati dopo l’avvio del genocidio israeliano a Gaza – avevano mostrato la vulnerabilità dei nodi strategici del commercio globale. Ora, l’attenzione si sposta sullo stretto di Hormuz, un corridoio marittimo largo solo trenta chilometri nel suo punto più esiguo, con due corsie di navigazione di appena tre chilometri ciascuna. Un passaggio strategico, decisivo per il trasporto di idrocarburi verso l’Oceano indiano.
L’isola di Qeshm, la più grande dello Stretto, era già abitata nel terzo millennio a.C., segno che l’area era cruciale per i commerci molto prima dell’era del petrolio. Nel 1515, i portoghesi costruirono, sull’isola di Hormuz, il Forte de Nossa Senhora da Conceição, per controllare il passaggio delle navi. Con la scoperta del petrolio, nel Ventesimo secolo, lo Stretto ha assunto una rilevanza geopolitica senza precedenti. Paesi come Qatar, Kuwait ed Emirati arabi uniti, ricchi di risorse ma senza sbocchi alternativi, dipendono completamente da questo passaggio per esportare petrolio e gas.
Già nel 2018, durante la prima presidenza Trump e dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, Teheran aveva minacciato di chiudere lo Stretto. Oggi, quotidianamente, centinaia di petroliere e metaniere lo attraversano, trasportando l’oro nero soprattutto verso l’Asia. Secondo il Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti, nei primi tre mesi del 2025 sono transitati da Hormuz, in media, 20,1 milioni di barili al giorno: circa il 20% della produzione globale.
Chiudere Hormuz sarebbe stata per Teheran una risposta potente agli attacchi subiti, ma avrebbe comportato anche un problema strategico. Alcuni degli esponenti più radicali della leadership lo invocano da tempo; ma, secondo Matteo Villa, analista dell’Ispi, chiudere il passaggio sarebbe stata una “mossa quasi suicida”: “Per lo stretto di Hormuz passa almeno il 20% della domanda mondiale di petrolio, e non ci sono rotte alternative. Se l’Iran lo chiudesse, si troverebbe contro praticamente tutto il mondo”. Anche perché – come riporta l’Agenzia statunitense per l’informazione energetica (Eia) – la Cina ha acquistato in media 5,4 milioni di barili al giorno nei primi tre mesi del 2025, segno che anche le economie asiatiche sarebbero direttamente danneggiate. Un blocco totale colpirebbe non solo Stati Uniti, Israele e Nato, ma la Cina e tutti gli altri Paesi del Sud-est asiatico.
Il fatto che lo Stretto sia tornato a essere l’epicentro delle tensioni globali, smentisce per l’ennesima volta l’idea che la globalizzazione e gli interessi commerciali bastino a prevenire le guerre. L’interdipendenza economica, un tempo considerata antidoto ai conflitti, si mostra oggi come uno strumento fragile e insufficiente. Teorie come quella famosa di Friedman – secondo cui due Paesi con un McDonald’s non si sarebbero mai fatti la guerra – si rivelano fallaci. Sia Mosca sia Kiev avevano filiali della catena statunitense, e, sebbene a Teheran non ci siano McDonald’s, gli interessi economici che attraversano l’Iran sono numerosi e profondi. L’illusione che la globalizzazione renda la guerra “inutile e controproducente” si infrange contro lo spettro concreto di uno scontro diretto tra potenze mondiali. La guerra si fa lo stesso, anche se, in questo caso, soltanto per dodici giorni.
Durante il fine settimana, i prezzi del petrolio avevano toccato il massimo degli ultimi cinque mesi, dopo che gli Stati Uniti avevano colpito alcune strutture nucleari iraniane. Teheran aveva risposto bombardando la base americana di Al-Udeid in Qatar, alimentando così l’instabilità sui mercati. Tuttavia, martedì 24 giugno, i prezzi sono crollati improvvisamente, quando è emerso che l’Iran stava sospendendo temporaneamente gli attacchi e che non avrebbe chiuso lo Stretto. Lunedì, su “Truth Social”, Donald Trump ha scritto in maiuscolo: “Tenete bassi i prezzi del petrolio, vi sto guardando”. Il presidente statunitense ha basato la sua campagna elettorale sulla riduzione dei costi dei beni di consumo quotidiano. Ma le sue politiche commerciali aggressive e l’imposizione di dazi hanno contribuito piuttosto a far salire i prezzi. Secondo l’ultimo indice dei prezzi al consumo – uno degli indicatori principali dell’inflazione per la Banca centrale americana – i generi alimentari sono aumentati del 2,9% rispetto all’anno scorso. Il petrolio è rimasto una delle poche aree di successo per l’amministrazione Trump, con una diminuzione del 12% del prezzo della benzina rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Ora però il rischio è che la tregua non duri. L’aggressività del governo israeliano, le tensioni interne all’Iran, e l’instabilità globale, rendono probabile una nuova escalation.
La riflessione sui conflitti, tuttavia, va ben oltre la strategia militare. La giornalista sudanese Nesrine Malik, in un’analisi pubblicata sul “Guardian”, ha scritto che “l’Occidente non può più permettersi di far finta che tutto questo non lo riguardi”. Che si tratti dell’abbattimento di un aereo israeliano, del danneggiamento di una portaerei americana o della chiusura dello stretto di Hormuz, le conseguenze economiche e strategiche sono immediate. Malik sottolinea come la narrazione occidentale riduca spesso il conflitto a una guerra contro l’Iran, ignorando la sofferenza civile e decenni di ingerenze straniere nella regione: “La presenza dell’Iran, nel panorama geopolitico del Medio Oriente, è stata usata per giustificare violenze, occupazioni e la disumanizzazione dei civili arabi”. Il mito di un capitalismo portatore di pace si infrange contro un mondo in cui gli scambi economici non bastano a contenere ambizioni geopolitiche, ingiustizie storiche e sete di potere.