
Il 1° giugno Filippo Ferri assumerà l’incarico di questore di Monza. Il suo nome a molti non dirà nulla, ma per chi ha subito le violenze del G8 di Genova del 2001 suona come un ritorno dell’incubo. Ferri fu infatti tra i principali protagonisti dell’irruzione alla scuola Diaz, passata alla storia come una delle pagine più oscure della Repubblica, quella in cui lo Stato mostrò il volto della tortura e del falso istituzionale.
La storia la ricordiamo tutte e tutti: la notte del 21 luglio 2001, gli agenti dei reparti mobili della polizia di Stato entrarono in forze nel complesso scolastico dell’ex liceo Diaz-Pertini di Genova, che, durante i giorni del G8, era stato adibito a centro stampa del Genova Social Forum e a rifugio notturno per centinaia di attiviste e attivisti rientrati dalle manifestazioni. L’incursione della polizia si trasformò in un durissimo pestaggio: i manifestanti, colti nel sonno o con le mani alzate in segno di resa, furono colpiti brutalmente. Sessantuno persone furono trasportate in ospedale, tre in condizioni gravi e una in coma. Chi fu portato via dovette anche subire ulteriori torture nella tristemente nota caserma di Bolzaneto.
Ad aggravare l’accaduto fu il tentativo sistematico di costruire una narrazione falsa per giustificare l’intervento. Tra le prove più eclatanti, utilizzate per accusare ingiustamente i presenti, due bottiglie molotov introdotte nella scuola dagli stessi agenti per simulare la presenza di ordigni. In un altro episodio, un poliziotto lacerò intenzionalmente la propria giacca fingendo un’aggressione con arma da taglio mai avvenuta. La realtà dei fatti, confermata dai processi, è che gli occupanti della scuola erano disarmati.
All’epoca dirigente della squadra mobile della Spezia, Ferri partecipò attivamente all’operazione che trasformò un istituto scolastico in un teatro di sangue. I giudici hanno ritenuto che Ferri fosse “coinvolto nei fatti dal principio”. Fu proprio lui, infatti, a scrivere il verbale degli arresti, come riportano gli atti del processo: “Al dottor Ferri vanno sostanzialmente riferiti il momento decisionale e l’elaborazione tecnico-giuridica relativi alla scelta di contestare agli occupanti il reato di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio”.
Condannato in via definitiva nel 2012 a tre anni e otto mesi di reclusione, per falso aggravato, e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, Ferri ha scontato solo in parte la pena grazie a un indulto. I giudici hanno descritto “l’odiosità del comportamento di chi, in posizione di comando a diversi livelli come i funzionari, una volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, invece di isolare e emarginare i violenti denunciandoli aveva scelto di persistere negli arresti creando una serie di false circostanze”. A distanza di anni, i processi hanno confermato quello che le immagini e le testimonianze raccontavano già allora: una spedizione punitiva vera e propria, con le persone colpite a sangue freddo, e poi, per giustificare l’operato delle forze dell’ordine, la costruzione di prove false, tra cui le famigerate molotov introdotte dagli stessi agenti all’interno dell’edificio.
Durante il periodo di interdizione, Ferri ha lavorato per il Milan come responsabile della sicurezza e tutor personale di un calciatore. Poi, lentamente ma inesorabilmente, è tornato nella polizia. Oggi guida la polizia ferroviaria di Milano; tra pochi giorni, salirà un altro gradino, assumendo la direzione della questura brianzola.
E la sua non è un’eccezione. Anche altri protagonisti di quella notte e dei giorni di Genova 2001 hanno fatto carriera o trovato riparo in ruoli pubblici. Alcuni sono stati reintegrati, altri premiati. Un circolo chiuso, in cui le responsabilità si diluiscono e la memoria si scolora. La stessa Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano, due volte, per quei fatti, evidenziando come la mancanza del reato di tortura nel codice penale abbia impedito una giusta punizione per crimini che andavano ben oltre l’abuso di potere. Solo nel 2017 l’Italia ha introdotto quel reato – troppo tardi per Genova.
Quello che colpisce oggi non è solo la promozione di un uomo condannato, ma il silenzio che l’accompagna. Nessuna presa di posizione, nessun dibattito istituzionale, nessuna richiesta di spiegazioni. Come se fosse normale. Eppure, i giudici della Cassazione furono chiari: gli imputati crearono consapevolmente un impianto accusatorio falso, costruito con lucidità e perseveranza, per coprire la brutalità della polizia. Un tradimento dello Stato di diritto, non un semplice “eccesso”. La nomina di Ferri a questore di Monza è il segnale che l’Italia, a differenza di altre democrazie, non solo fatica a punire i propri errori, ma spesso li assolve. Nel farlo, alimenta una cultura dell’impunità, che corrode il senso stesso di giustizia. Se un funzionario condannato per aver falsificato prove può tornare a guidare un’intera questura, cosa stiamo dicendo ai cittadini che ancora credono nella legalità? E cosa stiamo insegnando a chi veste una divisa?
Il vero scandalo è l’assuefazione, il modo in cui una ferita come la Diaz, e in generale il luglio 2001 a Genova, siano stati anestetizzati dalla routine burocratica, depotenziati dalla retorica dell’ordine. L’Italia sembra avere scelto la via dell’amnesia funzionale, dove ciò che conta non è la responsabilità passata, ma la capacità di tornare utili nel presente. Ma uno Stato che dimentica i propri errori è destinato a ripeterli. E forse li sta già ripetendo.