
No, non sta per cadere: Giorgia Meloni magari non avrà davvero realizzato la sua ambizione di rivestire il ruolo di “pontiera” fra il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e i leader europei, né sul tema dei dazi né su quello della postura “occidentale” nei confronti della Russia e del negoziato sull’Ucraina. Ma chi, tre anni fa, aveva immaginato, ancora sotto l’incantesimo della cosiddetta agenda Draghi, un rapido naufragio del governo di destra-centro, che potesse fare strada al ritorno di una qualche forma di governo tecnico, ha dovuto archiviare le sue illusioni. Non è accaduto, ed è arduo immaginare che possa accadere prima delle prossime elezioni politiche.
Meloni appare saldamente in sella, la sua poltrona a palazzo Chigi non è destabilizzata neppure dalle ricorrenti tensioni con gli alleati. È lecito, certo, interrogarsi sulla reale coesione dell’attuale maggioranza parlamentare, alla luce degli scontri piuttosto vivaci fra i partiti principali, sfociati in un voto contrario della delegazione della Lega in Consiglio dei ministri sulla decisione di ricorrere al giudizio della Corte costituzionale contro la legge del Trentino, che autorizzerebbe il presidente leghista, Maurizio Fugatti, a correre per un terzo mandato (e aprirebbe la strada a Massimiliano Fedriga, altro leghista, presidente di un altro ente a statuto speciale, il Friuli-Venezia Giulia, che coltiva le stesse ambizioni). Ma, come abbiamo ricordato spesso su “terzogiornale” (per esempio qui), le forze chiave dell’alleanza della quale Silvio Berlusconi fu il federatore – Forza Italia, la Lega e i Fratelli d’Italia, eredi della tradizione del Movimento sociale e di Alleanza nazionale – stanno insieme da oltre trent’anni, e le rotture vere fra loro possono essere limitate a due. La prima, quella fra Umberto Bossi e lo stesso Berlusconi, nel 1994, che causò l’uscita della Lega dalla maggioranza e l’arrivo del governo Dini (cui fece seguito una legislatura di centrosinistra); la seconda, con la sfida di Gianfranco Fini al leader azzurro, il “che fai, mi cacci?” che non portò grandi benefici alla carriera politica del fondatore di Alleanza nazionale.
Secondo un commentatore di grande esperienza come Marcello Sorgi, il trentennio che abbiamo alle spalle insegna che “non bisogna mai drammatizzare troppo le fratture che si aprono nella coalizione”, perché in un’alleanza che ha il suo collante nella “spartizione” del potere è fisiologico che qualcuno si sganci “per rinegoziare il prezzo della propria partecipazione”. A quanto pare, tocca nuovamente a Matteo Salvini testare la tempra dei suoi partner governativi. Certo, le bordate scambiate in Friuli fra il ministro di Fratelli d’Italia, Luca Ciriani, e la Lega, quelle ancora più pesanti con Fugatti in Trentino, dopo che quest’ultimo si è “vendicato” della decisione del governo di fare ricorso contro la sua legge, togliendo deleghe e vicepresidenza alla rappresentante di Fratelli d’Italia, Francesca Gerosa, qualche strascico lo lasceranno. “Chi rompe paga”, è l’avvertimento lanciato dal ministro meloniano. Intanto i leghisti, soprattutto quelli del Nord-est per i quali questa è una battaglia di bandiera, incassano il via libera del Consiglio dei ministri al disegno di legge del creativo Roberto Calderoli sui Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che dovrebbe risuscitare l’autonomia regionale azzoppata dai giudici della Consulta. Magari scommettendo (come già si ipotizzava qui) su una minore ostilità della Corte costituzionale in caso di nuova pronuncia, visto che la composizione del collegio è mutata in senso più favorevole alle destre.
Il no al terzo mandato è una “sottrazione di democrazia”, secondo Salvini. E anche se dagli alleati arrivano vaghi impegni all’apertura di un confronto sul tema, in vista di un improbabile intervento legislativo, è lo stesso vicepremier ad ammettere che “non lo vuole nessuno tranne noi”. Ma senza la possibilità di ricandidare i suoi presidenti “forti”, nei territori tradizionalmente a trazione leghista, il segretario della Lega rischia, nel medio periodo, di trovarsi a zonzo nel partito figure ingombranti come Attilio Fontana, Massimiliano Fedriga e soprattutto – a breve – il popolarissimo presidente del Veneto, Luca Zaia.
Non è un segreto che Meloni e i suoi si aspettino un corposo riequilibrio nelle cariche istituzionali regionali anche nei fortini leghisti del Nord. Anche se – quando Meloni ha imposto il suo candidato Paolo Truzzu in Sardegna (liquidando il leghista-sardista Solinas, presidente uscente) – ha preso una batosta memorabile, Fratelli d’Italia non manca di argomenti per far valere la sua intenzione di promuovere un ricambio a proprio favore. L’ultima supermedia dei sondaggi sulle intenzioni di voto a livello nazionale, disponibile sul sito di YouTrend, recita: Fratelli d’Italia 30%, Lega 8,6%. Lo scontro interno alla maggioranza di destra-centro non è destinato a placarsi nel breve periodo, Salvini probabilmente continuerà ad “alzare il prezzo” dell’alleanza. Senza però tirare troppo la corda.