
Nello Studio ovale della Casa Bianca è andato in scena il “sequel Zelensky”, ovvero lo show di Trump, a favore di giornalisti e social, per schiacciare e umiliare l’interlocutore di turno. Questa volta è toccato a Cyril Ramaphosa, il presidente sudafricano in udienza da Trump per scongiurare quel 30% che l’ormai mitica tabella dei dazi di inizio aprile aveva riservato al suo Paese. Se colui che presiede la più grande potenza del mondo ha bisogno di questi spettacolini deve sentirsi giù di corda, forse un po’ depresso – e a ragione –, malgrado tutte le apparenze, perché Putin e Netanyahu non se lo filano, e un Leone americano è venuto a togliergli la scena mondiale.
Trump aveva davanti non solo un uomo che sapeva a che cosa andava incontro, ma un ex sindacalista cresciuto nella lotta antiapartheid, poi nel difficile scenario politico in cui l’Anc, il partito di Nelson Mandela e della lotta per la dignità dei neri, non ha più la maggioranza nel Paese. E Ramaphosa, a capo di una “nazione arcobaleno”, è andato a Washington con una delegazione arcobaleno come il suo governo di unità nazionale, che comprendeva, tra gli altri, due giocatori di golf per il presidente golfista e il miliardario sudafricano Johann Rupert, amico di lunga data di Trump. La delegazione si è fatta accompagnare anche da qualche argomento economico di peso, la Cina.
Naturalmente, si è messo in scena il “genocidio dei bianchi” – con il trailer preparato da Elon Musk, nato in Sudafrica, già da febbraio, quando aveva accusato il governo sudafricano di perseguitare i bianchi, gli afrikaner discendenti dei conquistatori europei, e di confiscare loro le terre – per far pagare a Pretoria anche l’onta di avere portato Tel Aviv davanti alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di genocidio a Gaza (vedi qui). Il fattore soggettivo – o l’intenzione, come pretende la Convenzione contro il genocidio – è consistito in un filmato in cui il populista radicale Julius Malema, concorrente di Ramaphosa e oppositore all’attuale governo, riprende, in un tempo non definito, un vecchio slogan contro i boeri bianchi. Altra scena, la prova oggettiva, cioè una strada costeggiata da croci bianche che vengono fatte credere tombe di bianchi uccisi. Quella delle croci bianche è la forma di protesta che la comunità privilegiata dei proprietari terrieri bianchi inscena da anni, per denunciare le uccisioni di alcuni suoi membri.
Da buon negoziatore Ramaphosa ha risposto punto per punto: Malema rappresenta un piccolo partito, che non ha il consenso delle altre formazioni politiche anche quando sono contro il governo, ma in Sudafrica esistono la democrazia e il pluralismo, e il partito di Malema ha il diritto di esistere secondo la Costituzione. Sulla confisca delle terre, ha smentito che la legge approvata a fine gennaio permetta una confisca selettiva delle terre, ma solo una più equa ripartizione delle stesse. Sugli assassinii dei proprietari terrieri bianchi, Ramaphosa non ha negato il problema – ma ha ricordato che il fenomeno è dovuto alla diffusa delinquenza e violenza che tocca sia i neri sia i bianchi, e in proporzione più i primi che i secondi.
Alla vigilia della partenza per Washington, il presidente sudafricano aveva messo in guardia il suo interlocutore dall’insistere su accuse senza fondamento. Accuse non nuove, poiché Trump aveva già tirato fuori questi argomenti durante il suo primo mandato; ma allora non aveva Musk come braccio destro, e non ne aveva fatto un cavallo di battaglia. Questa volta alle accuse di febbraio aveva fatto seguire una serie di prese di posizione politiche. Trump aveva invitato espressamente i bianchi a lasciare il Sudafrica e a rifugiarsi negli Stati Uniti. Il segretario di Stato, Rubio, aveva disertato la riunione del G20 a Johannesburg, nel momento in cui il Sudafrica ne assumeva la presidenza di turno. Poi era venuta l’espulsione repentina dell’ambasciatore sudafricano a Washington, e infine in maggio c’era stata la messa in scena di cinquanta bianchi sudafricani accolti negli Stati Uniti come rifugiati.
Quando Ramaphosa è ripartito da Washington si è però dichiarato soddisfatto. Si era portato il ministro dell’agricoltura, John Stenhuisen, esponente bianco di un partito a lungo all’opposizione, che ha avuto il compito di spiegare a Trump che la protezione dei proprietari bianchi è una sua priorità, e che la stragrande maggioranza dei proprietari e dei commercianti bianchi non ha nessuna intenzione di lasciare il Paese. Anche se le statistiche sugli omicidi e sui reati, che smontano le equazioni del binomio Trump-Musk, non avranno il risultato di far cambiare musica nelle sceneggiature Maga, comunque sono state le premesse per riprendere i negoziati.
Il Sudafrica è la prima potenza industriale dell’Africa, gli Stati Uniti sono il suo secondo partner commerciale, dopo la Cina. Hanno entrambi interesse a trovare un accordo. Il Sudafrica si è fatto poi portavoce di quei Paesi africani che usufruiscono dell’Agoa, l’accordo che consente a un gruppo di Paesi, tra cui appunto il Sudafrica, di esportare negli Usa in regime di esenzione dai dazi. L’accordo scade quest’anno, e in campagna elettorale Trump aveva detto di non volerlo rinnovare. Ma il mancato rinnovo lascerebbe alla Cina una prateria aperta per continuare la sua espansione in Africa. I ragionieri della Casa Bianca sono con ogni probabilità al lavoro, e Trump dovrà chiarire prima o poi la sua politica africana. Il continente ha alcune delle terre rare, o comunque alcuni minerali essenziali, che fanno gola a Trump. Ramaphosa ha invitato Trump ad assistere al prossimo summit del G20, in novembre, a Johannesburg; Trump ha detto che ci penserà. Del resto il Paese ha degli eccellenti campi da golf. Ramaphosa ha tenuto però a scusarsi col suo interlocutore di non potergli regalare un aereo. “Mi sarebbe piaciuto, l’avrei preso”, ha risposto Trump.