
Gli sherpa della destra probabilmente avranno pure pensato di usare l’arma pesante del decreto legge, poi si sono fatti quattro conti e hanno capito che basta un disegno di legge d’iniziativa parlamentare per cacciare i nemici. Così sono passati all’azione, iniziando l’esame del progetto che modifica la legge istitutiva della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, ritagliandolo a pennello sulle figure di due membri non graditi, il senatore Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho, appartenenti al gruppo 5 Stelle, nonostante entrambi siano simboli integerrimi e amati dell’antimafia.
Recuperando la tradizione berlusconiana delle leggi ad personam, con la scusa propagandistica di eliminare dei conflitti di interesse, il testo del provvedimento in questione con un solo articolo stabilisce che “i componenti della Commissione che si trovino in una situazione di conflitto di interessi in relazione a determinati fatti oggetto dell’inchiesta da parte della Commissione, devono astenersi dalla partecipazione ai lavori e dalla consultazione della documentazione sui fatti medesimi”; nel caso si configuri questa situazione, i membri in conflitto di interessi si autodenunciano, vengono interrogati dalla stessa Commissione, poi viene fatta una relazione che mette al bando i suddetti.
Ora, il conflitto di interessi è in generale cosa seria e giusta, se non fosse che il disegno di legge vuole affrontare proprio “il caso che si è presentato dentro la Commissione”, com’è scritto nella relazione, cioè si riferisce non a una situazione astratta (le norme di legge devono essere astratte), ma a una particolarissima: quella della presenza indigesta di due punti di riferimento del mondo dell’antimafia, memoria storica e morale di quel mondo: Scarpinato, magistrato di punta all’epoca delle stragi di mafia, e De Raho, procuratore nazionale antimafia quando il finanziere Pasquale Striano accedeva in modo illecito – secondo le accuse della procura di Perugia – al database di via Giulia, appunto.
Il punto fondamentale, per districarsi dentro questa storiaccia, è che c’è un agguerrito manipolo di parlamentari della destra che agisce sotto l’impulso dell’ex generale Mario Mori e del suo fido aiutante, Giuseppe De Donno, già ospiti di lunghe audizioni nelle quali tornano ossessivamente a ripetere che la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, fu causata dal rifiuto della procura di Palermo di indagare sul loro dossier “mafia e appalti” del Ros (Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri). In particolare, il senatore Scarpinato, allora protagonista dei processi contro le infiltrazioni mafiose negli appalti, è in grado di smontare questa storiella, e lo ha fatto con una dettagliata relazione, che dimostra esattamente il contrario di ciò che i due prodi carabinieri vanno dicendo a braccetto con la presidente Chiara Colosimo.
In sostanza, Scarpinato e De Raho sanno e possono dimostrare che è in corso un depistaggio istituzionale teso a isolare la strage del luglio 1992 da tutti gli altri eventi violenti di quel biennio, allo scopo di sostenere (non ci riusciranno mai in sede logica e storico-politica, ma a loro basta la propaganda) che l’uccisione di Paolo Borsellino – uomo simbolo della militanza di Giorgia Meloni – non ha nulla a che fare né con le strategie dei fratelli Graviano, amici di Dell’Utri&C, né con ambienti eversivi del neofascismo, come importanti piste inducono a sostenere.
La destra sta usando tutto il suo potenziale di fuoco, insomma, per estromettere dalla Commissione antimafia testimoni irriducibili della falsità della pista degli appalti come causa della strage di via D’Amelio; riguardo alle altre stragi non hanno alcun appiglio per sostenere questa tesi, altrimenti ci proverebbero, visto il livello di sfacciataggine con cui procedono, pur non avendo nulla da dire e da spiegare al Paese su quel drammatico biennio, da cui nacque il cavalierato berlusconiano (come ritiene Giorgio Galli) tanto caro alla attuale élite di governo.
Un’élite che, peraltro, ha memoria così corta da dimenticare i propri conflitti di interesse, quelli attuali e mastodontici (Crosetto, Santanchè, Delmastro ecc.), ma anche quelli di un tempo, all’interno dello stesso organismo parlamentare che ora vorrebbero purificare dai nemici. Grazie alla destra, infatti, in Commissione antimafia è stato seduto Carlo Taormina, difensore di mafiosi, che comodamente accedeva a notizie utili ai suoi clienti; il senatore Luigi Vitali, che difendeva due candidati di Forza Italia in Calabria, dichiarati dalla commissione stessa “impresentabili”; e Amedeo Laboccetta (prescritto nel processo Fini-casa di Montecarlo), che tentò di dare una mano al re delle slot, Francesco Corallo, provando a dire che uno dei computer di questi sarebbe stato suo, membro del parlamento: ma, arrestato con Corallo, il senatore ne uscì bene. Per tacere del caso di Giancarlo Galan, deputato e tra i fondatori di Forza Italia, ex presidente del Veneto, condannato per le tangenti del Mose, che continuava a essere presidente della Commissione cultura di Montecitorio, stando agli arresti. Cose loro, cose di una destra che ha l’indecenza di attaccare oggi due uomini perbene come Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho.