
Il bullo della Casa Bianca sembra perdere colpi. Più di un episodio conferma questa impressione, evidenziata dall’immagine del presidente degli Stati Uniti che dialoga civilmente – diversamente dall’incontro-aggressione del 2 marzo scorso – con il suo omologo ucraino Zelensky all’interno di San Pietro. A dare un ulteriore colpo alla sua immagine di “padrone delle ferriere”, è arrivata la vittoria in Canada del Partito liberale, di stampo progressista, del premier uscente Mark Carney (vedi qui), che aveva sostituito ad interim il suo compagno di partito, Justin Trudeau, dimessosi lo scorso gennaio dopo dieci anni di governo.
Un duro colpo alle pretese del presidente statunitense di far diventare il grande Paese nordamericano il cinquantunesimo Stato degli Usa. Quella di Carney – economista di fama internazionale, già alla testa della Banca del Canada e dell’Inghilterra negli anni successivi alla Brexit – è stata una rimonta straordinaria, all’insegna dell’anti-trumpismo, contro i conservatori di Pierre Poilievre – per mesi in testa ai sondaggi anche di venti punti –, che ha pagato il prezzo della sua amicizia con Trump, del suo agire a immagine e somiglianza dell’inquietante capo degli Stati Uniti, organizzando la sua campagna elettorale attorno allo slogan Canada first, apparentemente nazionalista ma ricalcato sull’America first di Trump, e puntando l’indice contro l’immigrazione, quell’orda di povera gente che minaccerebbe l’integrità del Paese.
La vittoria del Partito liberale è di misura: il 43% contro il 42% del suo avversario (168 seggi contro 144). Un dato che lo costringerà a comporre un governo di minoranza, che dovrà cercare i voti per ogni decisione che verrà presa. Per la cronaca, le altre formazioni, gli indipendentisti del Blocco del Québec, di Yves Blanchet, la sinistra di Jagmeet Singh e i verdi di Elizabeth May, hanno preso, rispettivamente, ventitré, sette e un solo seggio. Molti osservatori avevano previsto un successo più netto, ma comunque la rimonta dei liberali ha dell’incredibile ed è stata favorita proprio da Trump, il quale – sogni di annessione a parte – ha adottato dazi pesantissimi contro Ottawa, dell’ordine del 25%.
Come dicevamo, Carney è un economista di grande spessore. Oltre agli incarichi che abbiamo segnalato, ha lavorato per tredici anni nella grande banca d’affari statunitense Goldman Sachs, ed è stato un funzionario del Dipartimento canadese delle finanze. Per questo è stato visto come il candidato migliore per affrontare quattro anni di guerra commerciale con gli Stati Uniti. Al contrario Poilievre è un politico di professione, per la prima volta deputato a 24 anni nel 2004. Le prime affermazioni di Carney sono state durissime contro l’inquilino della Casa Bianca, diventato il nemico numero uno del Paese. Il Canada “non dovrà mai dimenticare il tradimento americano – ha detto il leader liberale –, il nostro vecchio rapporto con gli Stati Uniti è finito”. “L’America vuole la nostra terra, le nostre risorse, la nostra acqua. Queste non sono minacce vane. Trump sta cercando di spezzarci per poterci possedere. Questo non accadrà mai”.
Malgrado la vittoria sia molto contenuta, Poilievre ha ammesso la sconfitta e si è unito al coro anti-trumpiano dei liberali. “Metteremo sempre il Canada per primo – ha detto il leader conservatore –, lavoreremo con il primo ministro e con tutti i partiti con l’obiettivo comune di difendere gli interessi del Canada e arrivare a un nuovo accordo commerciale che lasci i dazi alle spalle, mentre proteggiamo la nostra sovranità”.
I sogni annessionistici del tycoon si sono infranti anche sulle pretese di riappropriarsi del Canale di Panama (vedi qui), dove il muro cinese è apparso subito difficilmente sgretolabile, e su quelle dell’annessione della Groenlandia, dove, alle recenti elezioni, hanno vinto i nazionalisti di destra, favorevoli all’indipendenza dalla Danimarca ma allergici all’aggressività trumpiana, tratto che li accomuna alla sinistra. Tre alt che dovrebbero mettere in riga il leader dell’estrema destra americana, che, con questo ridicolo approccio, cercava e cerca di ottenere un qualche vantaggio economico nelle relazioni con i tre Paesi.
Resta il fatto che, dopo i primi cento giorni di governo, la sua popolarità è calata in modo impressionante, con cifre che non conoscono precedenti. “Secondo i dati aggregati dall’analista indipendente G. Elliott Morris – informa l’agenzia Askanews – Trump 2 è il presidente più impopolare dal 1953. La popolarità netta calcolata al 97esimo giorno del suo secondo mandato (il 26 aprile) è pari a -9,5, leggermente peggiore rispetto al -9,3 registrato alla stessa data nel 2017. In più, il calo sarebbe costante. Da una media del 49%, a inizio febbraio, è scesa a 43,5% al 28 aprile”. Uno scenario “spaventoso e caotico”, come l’hanno definito gli americani, che, al momento, non lascia molte speranze ai repubblicani per le elezioni di midterm del 2026 – e questo malgrado il letargo di cui sono vittime i democratici.