(Questo articolo è stato pubblicato il 22 aprile 2024)
Cosa si può chiedere a se stessi per non partecipare al festino delle merci culturali consumate come se niente fosse? Fino a dove si può spingere la ricerca della verità? E questa ricerca si può mostrare su un palcoscenico? Come dire quello che si deve dire senza fare un sermone? Sono le domande che agiscono sottotraccia in Pinter Party, lo spettacolo diretto da Lino Musella (prodotto dal Teatro Stabile di Napoli), che ha appena debuttato in prima nazionale al San Ferdinando: in un unico vortice scenico, scorrono davanti ai nostri occhi tre brevi atti unici, scritti da Harold Pinter tra il 1984 e il 1991, Il bicchiere della staffa, Il linguaggio della montagna e Party Time, testi in cui i torturatori si presentano con l’abito bianco e la risata sguaiata, tagliando la lingua delle vittime con la stessa disinvoltura con cui bevono un cocktail.
Musella non si limita a una idea di messa in scena – il party come cerimonia funebre –, ma utilizza lo spazio e il tempo di cui oggi dispone per fare un discorso politico che passa per il teatro senza annegarci dentro. Tanto per cominciare, l’attore e regista napoletano ha voluto accanto a sé altri artisti con i quali indagare gli spazi bianchi tra le righe del testo. Non ha cercato solo dei bravi attori, ma i compagni di un’avventura intellettuale: i loro nomi sono Paolo Mazzarelli, Betti Pedrazzi, Totò Onnis, Eva Cambiale, Gennaro Di Biase, Dario Iubatti, Ivana Maione e Dalal Suleiman. Ciascuno di loro ha fatto un lavoro importante, scolpendo la propria parte, nel gioco affilato della morte (perché è di questo che stiamo parlando), con nitidezza.
Contravvenendo a ogni aspettativa, Musella non ha lasciato per sé i ruoli da carnefice, che sono i più ambiti perché i più performanti (non a caso, nella versione del 2001 de Il bicchiere della staffa, andata in scena al New Ambassador Theatre di Londra, Pinter scelse per sé il ruolo di Nicolas, il torturatore che “ama la morte”). Ne Il bicchiere della staffa Musella si è limitato a sedersi su una sedia, lasciando che silenzi e risposte monosillabiche disegnassero il destino atroce della vittima. Poi, tra un atto e l’altro, ha indossato gli occhiali e – come se fosse lo stesso Pinter a parlarci – ha recitato frammenti del discorso che l’autore britannico fece a Stoccolma nel 2005, ritirando il Nobel: ragionando sul rapporto tra arte, verità e politica, Pinter affermò con vigore, di fronte agli accademici di Stoccolma, che come autore drammatico sentiva il dovere di trattare la verità in maniera elusiva, mentre come cittadino reclamava il diritto di conoscere la verità sulle guerre e altri crimini di Stato.
Musella si è sempre distinto per il modo sottrattivo, qualche volta persino atonale, con cui ama “essere” sulla scena. In questo caso, però, fa una scelta estetica che passa attraverso una precisa presa di posizione etica e quindi politica. Pinter Party arriva, nel suo itinerario, dopo Tavola tavola… chiodo chiodo, omaggio a Eduardo, e Come un animale senza nome, l’assolo dedicato a Pasolini.
Nel finale del primo spettacolo, Musella leggeva la lettera che il grande drammaturgo napoletano scrisse nel 1959 al ministro dell’epoca, Umberto Tupini: “Ho superato abbastanza bene i vent’anni d’isolamento e di ostracismo datimi dallo stesso dicastero che lei dirige da poche settimane, riuscendo a far applaudire in patria e a far riconoscere all’estero il mio teatro. Ma non ci si può sentire paghi di una posizione di privilegio in mezzo alla terra bruciata, di avere una bella casa in mezzo alle macerie. Nella società moderna le torri d’avorio possono trovare posto solo nei musei perché, a lungo andare, ogni possibilità di comunicazione tra l’arte e l’umanità cessa se si affievolisce fino a scomparire la consuetudine degli uomini di nutrirsi, oltre che di fettuccine, di competizioni sportive, di canzoni e di sermoni, anche delle emozioni, degli insegnamenti e del divertimento che l’arte può offrire”. Parole amare da parte di chi osservava con sofferenza l’affermarsi di un “teatro d’evasione”, “un teatro di tutto riposo” che, dopo l’aurea stagione del neorealismo post-bellico, si insinuava nel nostro Paese in maniera subdola, e di cui ancora oggi subiamo i narcolettici effetti.
Dopo Eduardo, Musella ha incontrato Pasolini, autore che ha affrontato con pudore, offrendo al pubblico il profilo del suo volto, e lasciando che fosse solo la voce a farsi strumento della rabbia e dell’ardore con cui l’intellettuale Pier Paolo Pasolini denunciava i crimini di Stato, mentre si piegava, nello stesso tempo, ad ascoltare il respiro delle creature senza nome, nei cui occhi trovava i resti del sacro.
Eduardo e Pasolini, con le loro solitarie liturgie, devono avere creato un cortocircuito, una scossa deflagrante, un vuoto d’aria, tali da portare alla sottrazione del corpo. In Pinter Party, Musella si pone nella condizione della vittima immobilizzata e in quella del cameriere che porta da bere agli invitati. Probabilmente i suoi fan ne avranno sofferto, perché ha negato quel tipo di performance cui ci aveva abituati, interpretando, per esempio, i sonetti di Shakespeare tradotti in lingua napoletana.
Del resto anche Pinter si può fare in maniera molto spettacolare. Nel caso di Party Time, il tasso di “divertimento”, di cui parlava Eduardo, è assicurato dal ritmo sonoro del lavoro, che registra il battito cardiaco dell’animale morente, vittima sacrificale di una società che per saziarsi ha bisogno di affamare, uccidere, rastrellare, torturare, eliminare le minoranze. Eduardo parlava però anche di “emozioni” e “insegnamenti”, senza i quali il teatro si fa materia innocua, se non oscena. Pinter Party ci consegna i suoi insegnamenti, gettando un ponte tra il Pinter drammaturgo e il Pinter politico. Operazione rischiosa, che potrebbe avvicinarsi a quella “predicazione” che Pinter stesso detestava nel teatro cosiddetto politico: “Bisogna lasciare che i personaggi respirino la loro propria aria”. Ma siccome – è ancora Pinter a dirlo – “la ricerca della verità non può fermarsi”, non solo non si ferma ma, con Pinter Party, viene spinta all’estremo.
Non possiamo sottovalutare il fatto che questa ricerca della verità, questo spirito di non assuefazione, si manifestino proprio sul palcoscenico del San Ferdinando, il teatro che Eduardo aveva restituito alla sua città esattamente settant’anni fa, e che gli era costato anni di fatiche e dolori. “Ripeto, io sono ormai al termine della mia carriera” – citiamo sempre dalla lettera di Eduardo (la cui carriera, per nostra fortuna, non si interruppe nel 1959) –, “sono contento di quello che, sia pure con tanti sacrifici e tante amarezze, ho realizzato, non ho bisogno di niente, anche se la mia situazione economica non è delle più floride (invece di farmi ville e yacht ho voluto ricostruire un celebre teatro distrutto dalla guerra, e per pagare questo “lusso” da molti anni i miei diritti d’autore sono bloccati a favore delle banche), non chiedo niente per me. Parlo perché credo sia dovere parlare, perché l’idea di veder morire il teatro del mio Paese mi è insopportabile”.
Tornando a Pinter, nel 2005, due anni dopo la guerra in Iraq, lo scrittore inglese denunciò, senza abbellimenti, i crimini e le menzogne degli Stati Uniti, parlando apertamente delle torture di Abu Ghraib. L’ombra sinistra dei fatti sanguinosi d’inizio millennio si posa così sui tre atti unici scritti negli anni Ottanta, che facevano invece riferimento ad altre torture. Ne Il bicchiere della staffa, dietro la figura di Victor emerge il personaggio storico del cantautore e poeta cileno Victor Jara, torturato e ucciso il 16 settembre 1973, cinque giorni dopo il golpe di Pinochet: in scena, riascoltiamo, infatti, due frammenti delle sue canzoni. Con le immagini delle soldatesse curde (riprese da Matteo Delbò) si chiude invece Il linguaggio della montagna, che, nella sua resa scenica, accoglie le note pinteriane: “A volte ci si dimentica che a torturare spesso ci si annoia. Coloro che torturano hanno bisogno di qualcosa che li faccia ridere per tenere alto lo spirito”. Un’euforia che esplode nel terzo movimento, Party Time, in cui gli attori indossano le maschere dei supereroi americani: un segno che, nella sua letteralità, fa inclinare il gelo dei dialoghi verso una zona più tiepida, portando gli interpreti a perdere, a tratti, quell’equilibrio tanto sapientemente raggiunto nel corpo a corpo con la materia. Una misura che torna nella toccante scena finale in cui, dopo la lettura dell’ultimo frammento del discorso del Nobel, tutti gli attori, spogliati delle ingombranti maschere, recitano, tenendosi per mano, il monologo di Jimmy: Jimmy che era scomparso e non verrà mai più ritrovato, Jimmy che non ha più un corpo perché gliel’hanno tolto, Jimmy fatto fuori dal “club” degli assassini, Jimmy che “aveva un nome” e ora ha solo “il buio in bocca”.