Il Sudafrica ha annunciato, martedì 14 febbraio, di avere fatto un nuovo appello alla Corte internazionale di giustizia perché prenda nuove misure urgenti contro il proposito di Israele di attaccare la città di Rafah. Prima dell’invasione israeliana di Gaza, come rappresaglia all’attacco terroristico di Hamas contro Israele del 7 ottobre, Rafah contava circa 280.000 abitanti; ora, secondo l’Onu, vi è ammassato un milione e quattrocentomila persone, vale a dire oltre la metà della popolazione palestinese di Gaza. La concentrazione a Rafah è conseguenza degli ordini di evacuazione dell’esercito israeliano. In quella città ci sarebbero seicentomila bambini, secondo l’Unicef, che il 9 febbraio aveva lanciato un appello alle parti in conflitto per il rispetto del diritto umanitario, sottolineando che “le operazioni militari in aree residenziali densamente popolate possono avere effetti indiscriminati”, come del resto aveva già dichiarato due giorni prima il segretario generale dell’Onu. Da parte sua, la Croce rossa internazionale ha sottolineato che la popolazione di Rafah, a questo punto, non ha altro luogo dove trovare rifugio, e già adesso è priva di tutti i servizi essenziali.
Il Sudafrica aveva già presentato, il 29 dicembre, una richiesta di misure urgenti alla Corte internazionale di giustizia (vedi qui) per prevenire il rischio di genocidio della popolazione palestinese da parte di Israele: e il 26 gennaio la Corte aveva stabilito l’esistenza di questo rischio e emanato delle misure urgenti (vedi qui). Fra le richieste della Corte a Israele c’era quella di fornire, entro un mese, una relazione sulle misure che intendeva prendere per la prevenzione del genocidio. Tale relazione non è arrivata alla Corte. D’altro canto, con ogni evidenza, Israele non ha adottato nessuna misura per prevenire il crimine di genocidio. Consapevole dei tempi necessari ai pronunciamenti della Corte, Pretoria questa volta chiede espressamente che non vi sia un’apertura del dibattito, ma che la Corte esamini urgentemente se l’evoluzione della situazione a Rafah esiga la presa di misure urgenti per prevenire il rischio di genocidio.
A Gaza le circostanze che avevano indotto Pretoria, un mese e mezzo fa, a una prima richiesta alla Corte, si sono oggi nettamente aggravate. Israele non ha dato alcun segno di attenersi alle obbligazioni dettate dalla Corte, e, con l’attacco a Rafah, renderebbe la situazione nettamente più drammatica. Le motivazioni del Sudafrica, per questa nuova offensiva giudiziaria internazionale, sono evidenti. Ammesso che la Corte decida di esercitare il potere speciale di pronunciarsi subito, Pretoria intende fare nuove pressioni su Tel Aviv, in un momento in cui il muro di omertà nei confronti dei crimini di guerra commessi da Israele sembra almeno fessurarsi.
L’uso del diritto internazionale da parte del Sudafrica non è un’ingenuità. È anche una risposta ai diritti che più volte Israele ha rivendicato per se stesso: diritto all’esistenza, diritto alla sicurezza, diritto alla difesa. La contraddizione è evidente: Netanyahu nega il diritto all’esistenza di uno Stato palestinese, e la popolazione di Gaza, come quella dei territori occupati, è priva di qualunque sicurezza. Il diritto alla difesa con mezzi nonviolenti da parte dei palestinesi non è mai stato considerato da Israele come legittimo. Inoltre, il governo sudafricano, come altri governi, pensa che fermare Netanyahu contribuisca a favorire la liberazione degli ostaggi israeliani ancora detenuti da Hamas.
Il ricorso, in particolare, alla Convenzione sul genocidio non è casuale. La “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” obbliga, infatti, a non commettere il genocidio ma anche a prevenirlo. Il Sudafrica non ha chiesto la condanna di Israele per genocidio; ha chiesto misure che impediscano a Israele di commetterlo: perché questo è il significato di “prevenzione”. In più, quest’obbligo giuridico di prevenire, presente nella Convenzione del 1948, non è solo di Israele, ma di tutti gli Stati che hanno ratificato la Convenzione stessa. La vendita di armi, la cooperazione militare, il sostegno alla politica di governo, o la politica attendista da parte di uno Stato nei confronti di Israele, sono dunque violazioni della Convenzione – violazioni di un preciso dovere degli Stati –, e non c’è nessuna necessità di verificare se il crimine di genocidio sia o meno in corso. Nell’attuale dibattito politico in Italia, e a livello internazionale, non sembra sia presente questa coscienza, così come la consapevolezza delle ragioni che spingono il Sudafrica a usare uno strumento che appare del tutto sproporzionato per tempistica e per forza rispetto alla dismisura della rappresaglia israeliana.
L’ultima motivazione sudafricana consiste, specificamente, nel legame tra genocidio, crimini contro l’umanità e Israele. La Convenzione sul genocidio è stata, il 9 dicembre del 1948, il primo dei testi a tutela dei diritti umani, un giorno prima della Dichiarazione universale. La Seconda guerra mondiale con i suoi crimini, e soprattutto con la Shoah, aveva evidenziato che il genocidio era purtroppo possibile. La Convenzione nasce dalla necessità di prevenirlo prima ancora di condannarlo. Chi meglio di Israele dovrebbe possedere la storia e la cultura per prevenirlo per sé e per gli altri popoli? Ma è del tutto evidente che il governo Netanyahu questa cultura non l’ha. Perché insistere allora? In Sudafrica il regime dell’apartheid comincia a sgretolarsi con la liberazione di Mandela (1990) fino a cadere con le prime elezioni libere del 1994. Nel 1973 l’Assemblea generale dell’Onu aveva stabilito che l’apartheid è un crimine. Ci sono voluti vent’anni, ma alla fine l’apartheid è crollato in Sudafrica. E nei territori palestinesi occupati, Israele ha messo in pratica una politica di apartheid, secondo l’Onu. Nell’esperienza del Sudafrica il diritto internazionale svolge quindi un ruolo importante, un’arma nonviolenta per superare le violazioni dei diritti fondamentali. Se pensiamo che la Corte non avrà, se e quando si pronuncerà, gli strumenti per far rispettare le sue sentenze, è evidente che la volontà del Sudafrica è quella di contribuire a far cadere il muro di complicità e omertà che circonda Israele.
Intanto, anche il Nicaragua ha fatto richiesta di intervenire nell’atto depositato dal Sudafrica. Davanti alla stessa Corte, dal 19 al 26 febbraio, ci saranno inoltre le udienze pubbliche sulle pratiche di occupazione da parte di Israele nei territori e a Gerusalemme Est. L’iniziativa era stata presa dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 2022 affinché la Corte si pronunciasse sulle conseguenze giuridiche della violazione, da parte di Israele, del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, sull’occupazione, sulla colonizzazione e annessione dei territori palestinesi a partire dal 1967. La sentenza è attesa per quest’anno, e certamente contribuirà a fare chiarezza sulla condizione del popolo palestinese. In assenza di un potere effettivamente coercitivo da parte della Corte, ci vorrà qualcosa di più decisivo delle sanzioni contro alcuni coloni israeliani violenti prese dagli Stati Uniti, a dicembre, e più recentemente dalla Francia.