La sentenza Cavallini gronda attualità. In appello il tribunale di Bologna ha confermato l’ergastolo per il neofascista, stabilendo la sua fattiva partecipazione alla strage di Bologna del 2 agosto 1980. Gilberto Cavallini è il killer, tra l’altro, del giudice romano Mario Amato (indagava sull’eversione nera, freddato a una fermata del bus): a scortare in moto Cavallini c’era Luigi Ciavardini, già condannato definitivamente per la strage, vicino agli ambienti dell’attuale presidente dell’Antimafia, Chiara Colosimo. Ciavardini ha consentito a Cavallini di uscire dal carcere nel 2017 (in regime di semilibertà), impiegandolo come operaio e addetto dell’ufficio commerciale della Essegi2012, che ha sede presso l’associazione Gruppo Idee di Terni. Sempre Ciavardini è sotto processo per falsa testimonianza proprio a vantaggio dell’amico Gilberto.
La Corte bolognese ha accertato il “contributo agevolatore” dato da Cavallini agli altri stragisti – oltre Ciavardini, Fioravanti e Mambro –, dando loro ospitalità in Veneto, base logistica, un’auto per raggiungere Bologna, documenti falsi. I quattro si sono sempre difesi raccontando di essere stati insieme il 2 agosto 1980 – ma a Padova, non a Bologna. Versioni piene di contraddizioni, tanto che l’alibi non ha retto alle prove giudiziarie. La banda si è sempre difesa in blocco, “noi non c’entriamo”, con un “noi” che rimanda ad antichi legami di solidarietà mai spezzati.
Due aspetti della sentenza di condanna di Cavallini (in attesta del vaglio formale della Cassazione) interessano vivamente. Il primo riguarda appunto l’attualità. L’odierno establishment meloniano è espressione di quegli ambienti che hanno sempre stretto un cordone attorno ai neofascisti condannati per la strage di Bologna: l’ultimo che ha pensato di declamare al mondo l’innocenza degli amici Mambro & C, Marcello De Angelis, ex portavoce del presidente della Regione Lazio, si è dovuto dimettere. È caduto non già sugli amici ma sulle offese alla comunità ebraica – quelle infatti Giorgia non se le poteva proprio permettere. Ma è caduto.
La stessa presidente del Consiglio, ancora nel 2018, scriveva sull’allora Twitter (oggi X): “02/08/1980 – 02/08/2018: 38 anni dalla strage di Bologna. Ancora oggi tutto avvolto nel mistero, nessuna verità, nessuna giustizia. Un pensiero alle vittime e ai loro familiari”. Era presidente di Fratelli d’Italia, oggi è capo del governo, ma siamo sempre lì: Meloni non ci pensa proprio ad accettare la responsabilità dei suoi ambienti. È un gran problema per questo straccio di democrazia italiana, perché sono al potere forze reazionarie che vogliono riscrivere la biografia del Paese. Questo è il gravissimo punto politico, insidiato da una sentenza che stabilisce un fatto storico (come per tutte quelle che riguardano eventi molto in là negli anni).
L’altro aspetto legato alla sentenza: muore, sepolta nei secoli dei secoli (si spera), la pista delle responsabilità palestinesi. L’incerta difesa di Cavallini proprio a essa si è appellata per invocare l’innocenza dell’assistito. Tentativo franato sotto i colpi di una sentenza di cui sarà interessante leggere le motivazioni. Sappiamo per ora che qualifica, quella di Bologna, come “strage politica”: è molto importante per la contestualizzazione storica e, appunto, politica di una vicenda fino a oggi rimasta appesa agli stragisti Mambro, Fioravanti e Ciavardini: troppo poco per coglierne il significato più profondo.
Oggi abbiamo la sentenza contro Paolo Bellini (vedi qui), fascista legato ai servizi e a Cosa nostra, inchiodato da un video alla piazza della strage. E adesso questa contro Cavallini, ex Nar, e legato a Ordine nuovo, “l’agenzia delle stragi” (c’è sempre dopo ogni eccidio), lo stesso gruppo di Mambro e sodali, ma non solo. Egli è la continuità tra il neofascismo post-guerra e la riedizione giovanile dei Nar, definito con molta (troppa) genericità “spontaneismo armato”, destrutturato fino a renderlo un gruppo di barbari criminali.
La diaspora neofascista dopo il 1973, conseguente allo scioglimento di Ordine nuovo (poi ci fu anche quello di Avanguardia nazionale), fu un fenomeno complesso che portò alla nascita di diverse sigle operative, tra la fine degli anni Settanta e la metà del decennio successivo. Fronte unitario lotta al sistema (Fulas), Movimento rivoluzionario popolare (Mrp), Terza posizione (Tp), Nuclei armati rivoluzionari (Nar), Costruiamo l’azione (Cla): sono solo le organizzazioni più note, ma ce ne furono altre che agirono in un clima di attivismo frenetico e di scopi imprecisati. Il programma dei nuovi gruppi neofascisti fu discusso tra il 28 febbraio e il 2 marzo 1974, dai leader di On e An, e degli altri organismi collegati, all’Hotel Giada di Cattolica di proprietà̀ di Mario Caterino Falzari, collaboratore del Sid, della polizia e dei carabinieri, circostanza nota a buona parte dei partecipanti. Non si può dire che questo processo a destra sia stato “autonomo”. Il giudice istruttore del procedimento contro Ordine nero non poté fare a meno di notare: “È perlomeno insolito che i dirigenti di un movimento illegale scelgano quale luogo di riunione proprio quello in cui sanno di poter essere sorvegliati. Resta la sola spiegazione che quello fosse l’unico posto sicuro ove operare, confidando in opportune coperture”.
La destra che si riorganizza dopo lo scioglimento per legge delle formazioni storiche non è un fenomeno politico autonomo e giovanile. Non esiste una frattura tra il filone stragista e quello spontaneista, tendenzialmente puro. I referenti ideologici, i padri riconosciuti, si identificano sempre nelle stesse figure (Signorelli, Delle Chiaie, Pugliese, Fachini, Freda). Certo, emergono anche nuove leve che pretendono autonomia e mostrano insofferenza agli schemi consolidati, rappresentano una nuova generazione, tendono a emulare i coetanei inquadrati nelle formazioni politiche di sinistra, e tentano di elaborare una propria cultura politica. Ma il controllo delle attività non è nelle mani dei nuovi arrivati. L’agenzia delle stragi è sempre lì a tirare le fila.