Di solito i successori di una dinastia capitalistica sono peggiori dei loro predecessori. Rispetto al nonno, Gianni Agnelli fu poco più che un azzimato parassita dedito alla cocaina (il figlio Edoardo ne fece le spese diventando tossicodipendente e poi suicidandosi), e i suoi nipoti, John e Lapo, di certo sono ancora peggiori. Ma nel caso degli eredi di Berlusconi le cose stanno diversamente: difficile superare in abiezione il capostipite. Lui le ha già fatte tutte: rapporti con la mafia alle origini della sua fortuna, acquisto semitruffaldino dalla giovane Casati Stampa della villa di Arcore con l’aiuto dell’avvocato Previti, corruzione in atti giudiziari ancora in combutta con questi, corruzione di parlamentari della Repubblica per ottenere la maggioranza in Senato, frode fiscale, prostituzione a iosa, anche minorile.
C’è però qualcosa di peggio, che fa il paio con lo sdoganamento politico dei fascisti nel 1994. Ed è l’estetizzazione della vita quotidiana profusa a piene mani con le televisioni. Il nesso tra estetizzazione e fascismo fu messo dapprima in luce da Walter Benjamin: si pensi alle marce, ai gagliardetti, alle canzonacce, all’uso della camicia nera; e si consideri, per quanto riguarda le avanguardie artistiche, il futurismo di Marinetti e la sua esaltazione della guerra. Nell’insieme, si trattava già di un’estetica del brutto (a sua volta, un concetto messo a fuoco, in età romantica, dal filosofo hegeliano Karl Rosenkranz). Ma l’estetica del brutto del berlusconismo mediatico e poi anche politico, congiunta alla pubblicità delle merci e all’iperconsumo di massa, è qualcosa di più: una rivalutazione della paccottiglia in genere (di cui Donald Trump, quasi allievo che ha superato il maestro, è il massimo continuatore), con una decisa sterzata verso il ripugnante. Anche nell’aspetto fisico – i famosi capelli finti, il lifting facciale di Berlusconi –, e certamente nell’estrema volgarità delle trasmissioni: dalle soubrette con i seni a palloncino, agli urlatori televisivi, ai comici con le barzellette e i doppi sensi (di cui lo stesso Berlusconi era un appassionato). Qualcosa che finì con il contagiare, per la logica stessa della concorrenza, la stessa tv di Stato.
Quando si discorre di un’egemonia berlusconiana, cioè di un consenso messo su grazie a una potenza di fuoco mediatica, è di questo che si parla – a partire, a far data, dagli anni Ottanta. Prima non è che il consumismo non vi fosse. Ma l’estetizzazione della vita quotidiana nel senso di un’estetica del brutto inserì una marcia in più; poi, con quello sdoganamento del fascismo di cui si diceva, le tv e la politica fecero massa critica, dando vita a una nuova formula di deformazione della democrazia, nel solco dei populismi novecenteschi.
Ora, i berlusconidi – cioè i figli che avranno il controllo delle aziende, perché degli altri non mette conto parlare – sono cresciuti alla scuola del capostipite, il quale ha dimostrato di tenere più alla continuità nella proprietà dei beni che al lascito politico (del resto ridotto ormai a poca cosa), ripreso di fatto da Giorgia Meloni: a conferma della tesi che da sempre c’è un nesso tra berlusconismo e neo o postfascismo. I berlusconidi sono già molto avanti nell’estetica del brutto: Marina anche dal punto di vista personale, liftata e con il seno rifatto – e Pier Silvio (si noti l’accortezza del nome impartitogli, che vorrebbe stabilire la linea di una tradizione), che ha lasciato la porta aperta a una futura candidatura politica, per il momento con i programmi televisivi che mette in onda.
La dissoluzione dell’impero berlusconiano è molto di là da venire: continua a non esserci alcuna seria legge che impedisca una concentrazione di potere in un campo vitale come quello della comunicazione e dell’editoria – per la qual cosa sarebbe sufficiente essere liberali –, mentre noi, che da socialisti saremmo per l’abolizione del diritto di successione o almeno per tassarlo fortemente, non contiamo niente. I berlusconidi hanno davanti un avvenire probabilmente sereno, di sicuro con poche tasse da pagare. Le difficoltà potrebbero venire solo dall’interno, se litigassero tra loro. Nessuno che veramente ne insidi la potenza. Se ci riferiamo agli intellettuali, agli scrittori che percorrono i corridoi della Mondadori – o dell’Einaudi che fa parte dello stesso gruppo, come peraltro la Rizzoli, acquisita più di recente –, disposti magari a leccare le scarpe alla “padrona” pur di pubblicare, nulla hanno mai obiettato e seguiteranno a non obiettare nulla. Se pensiamo alla politica e al giornalismo, all’incirca idem. Gli affari del signor Massimo D’Alema (tanto per fare un nome) mostrano oggi con chiarezza una subalternità ideale al berlusconismo che si poteva già intravedere ai tempi della Bicamerale; da ultimo, il passaggio a Mediaset della figlia di Enrico Berlinguer, fino ad anni non lontanissimi ancora attraente, sembra chiudere la partita. L’estetizzazione della vita quotidiana, nel senso di un’estetica del brutto, ha vinto.