Sfilano molti testimoni davanti alla Corte d’assise di Bologna, dove si sta celebrando il processo ai mandanti della strage alla stazione. Sembrano spesso ombre impalpabili che spuntano da un passato remotissimo anche se, in definitiva, non troppo lontano, nel senso stretto del tempo storico. E ancora di più nel senso di fatti che parlano ancora oggi di persone vive – le vittime e i carnefici – e delle strategie di affossamento della verità.
Prendiamo per esempio l’omicidio di Mario Amato: 23 giugno del 1980, dunque pochi giorni prima della strage del 2 agosto. Quella mattina l’auto blindata non passò a prenderlo a casa e, per recarsi in ufficio, il magistrato prese l’autobus, ma alla fermata lo aspettavano i suoi killer, Gilberto Cavallini e, in moto pronto a fuggire, Luigi Ciavardini – condannati come mandanti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Il giudice aveva capito la matrice di destra della violenza stragista, e la sua figura è molto importante nell’ambito di questo dibattimento.
Per questo, lo scorso 29 settembre – giorno in cui sono riprese le udienze dopo una pausa forzata di due settimane, imposta per consentire al principale imputato, Paolo Bellini, di riprendersi dopo il malore che lo aveva colpito il 3 settembre –, è stato ascoltato un suo stretto collaboratore, Giorgio Minozzi, classe 1945, ex commissario capo della polizia di Roma che dirigeva la sezione dedicata alle indagini sull’estrema destra a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, poi futuro direttore della Divisione controterrorismo internazionale del Sisde.
A fronte dell’azione complessa che stava svolgendo il giudice e della brutalità della sua morte, Minozzi ha svolto una testimonianza piena di “non ricordo” e di lacune, sottolineate più volte anche dal presidente della Corte d’assise, Francesco Maria Caruso: com’è possibile, viene da chiedersi, che un uomo così vicino al momento tragico si perda nei “non ricordo”? Cose della vita. In aula, a seguire l’udienza, c’era anche il figlio di Mario Amato, Sergio: suo padre, ormai lo sappiamo bene, fu il primo magistrato a tentare una lettura globale del terrorismo nero, riuscendo a ricostruire anche le connessioni tra i vari gruppi della destra eversiva e la banda della Magliana. Ma era isolatissimo – su questo, almeno, Minozzi ha dato la sua piena conferma: “Era isolato, ne parlava sempre di questa cosa, in una città come Roma dove c’era una grande quantità di episodi criminosi riconducibili alla destra, un solo magistrato che si occupava di quell’estremismo era per loro un facile obiettivo”.
Amato operava dunque in completa solitudine. Pochi giorni prima del suo assassinio, andò a cercare solidarietà al Consiglio superiore della magistratura: “Sto arrivando alla visione di una verità d’assieme e che coinvolge responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli atti criminosi”, lamentando poi l’isolamento in cui era stato confinato e l’assoluta necessità di condividere le indagini con altri colleghi. Sentendo evidentemente il peso della sorte, prefigurava il vanificarsi delle sue inchieste. Il Csm promise ma non successe niente, e ormai era tardi.
Mario Amato aveva preso in mano le indagini del magistrato Vittorio Occorsio, a sua volta ucciso mentre indagava sui Nar e sul neofascista Pierluigi Concutelli. Se nel 1980 lo Stato avesse protetto il giudice Amato, o se si fosse indagato immediatamente sul suo omicidio, forse si poteva evitare il massacro della strage di Bologna – sostengono adesso in aula le parti civili del processo.
Amato aveva la chiave di tutto, era convinto che i gruppi dell’estrema destra fossero in realtà collegati tra loro e avessero una regia comune. Un’intuizione enorme e assai pericolosa per i neofascisti, che avrebbe potuto finanche arrivare a svelare la vera natura del terrorismo nero e i legami con i servizi. Ma si volle prendere un’altra strada: Occorsio venne ucciso il 10 luglio del 1976; il giorno dopo, a Roma, venne trovata una borsa che conteneva un po’ di cocaina e undici bossoli di pistola identici a quelli che uccisero poi Amato, i documenti falsi di Fioravanti e alcune sue fototessere. Su quel materiale nessuno fece accertamenti adeguati, nessuno cercò Amedeo De Francisci (era il nome falso sul documento con cui girava Fioravanti), nessuno fece collegamenti e nessuno cercò i Nar. Difficile dire che la strage sia stata un tragico destino.
Nel processo, nei prossimi giorni, nuovi testimoni sfileranno davanti alla Corte: dalla signora Lucia Mokbel – chissà se avrà qualcosa di nuovo da dire sullo stabile di via Gradoli – al boss della Magliana Maurizio Abbatino, ormai abituale comparsa in molte aule giudiziarie.