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Se i profitti si chiamano stipendi
Una piccola imprenditrice alberghiera in Abruzzo (che si appresta a votare probabilmente per i due improvvisatori, Renzi e Calenda) diceva pochi giorni fa: “Magari non mi do lo stipendio pur di pagare le quattro che lavorano con me”, cioè le addette alle pulizie e al riordino delle camere, assunte con regolari contratti part time. Non c’è motivo di dubitarne, e ci sarebbe semmai da esclamare: “Vorrei vedere!”. È piuttosto la indebita generalizzazione che, nel contesto, la signora intendeva trarne che va criticata: l’impresa privata sarebbe votata al benessere dei dipendenti, quasi un’opera di carità. Ciò che l’imprenditrice ovviamente ometteva di aggiungere era che la sua attività economica le deriva da proprietà ereditate senza versare neppure una tassa di successione degna del nome, e che il denaro che intasca non si chiama stipendio ma profitto.
In linea di massima, i profitti sono aumentati non poco negli scorsi decenni, mentre in Italia, come attestano tutte le statistiche, i salari sono rimasti al palo. Nelle regioni del Nord, quelle a più alta intensità produttiva, le relazioni industriali da tempo sono diventate un affare quasi del tutto corporativo: padroni e padroncini non hanno operai e impiegati, soltanto collaboratori. È la base sociale, come si sa, del leghismo, una forma di populismo a carattere regionale, consolidatosi sullo sfondo di un’ideologia “padana” e xenofoba, esaltante lo spirito d’iniziativa di un certo genius loci – e che oggi si sta in parte riorientando verso il postfascismo di Giorgia Meloni (mentre il berlusconismo, populismo mediatico adeguato a una fase trascorsa, è ormai in netto declino, pur essendo all’origine delle fortune politiche delle destre estreme, riciclate e non, nel nostro Paese).