Torniamo sulla figura di Paolo Bellini. L’ex avanguardista è stato condannato in primo grado come esecutore della strage di Bologna: per lui l’accusa non è nuova, gli era stata già rivolta nel 1992, ma fu poi prosciolto in istruttoria (28 aprile ’92). È utile inoltrarsi nel lavoro fatto dagli inquirenti per comprendere il calibro di questo personaggio e i motivi che hanno indotto la Corte a emettere il più duro dei verdetti, ricordando che la procura generale della città felsinea ha avocato le indagini, cioè le ha legittimamente sottratte alla procura ordinaria, secondo la quale la massa di elementi portati dall’Associazione delle vittime era buona solo per un’archiviazione.
Apparentemente fuori dal caso, Bellini ci ripiomba con la forza di quel filmato amatoriale che lo ritrae lì, in quel giorno, pochi minuti prima della strage. Le indagini erano state riaperte il 19 febbraio del 2019. La prima tappa, nel luglio successivo, furono le perquisizioni domiciliari nei confronti di Bellini e dei suoi familiari, dirette alla ricerca di immagini foto e video e di ogni oggetto utile, compreso quel crocefisso portato al collo dal tizio ripreso nel filmato; contestualmente, venivano avviate attività d’intercettazione nei confronti di Maurizia Bonini, ex moglie di Paolo, che aveva già fornito un (apparentemente) solido alibi per la giornata del 2 agosto 1980: al tempo delle prime indagini sul marito, disse che quel maledetto giorno si trovavano in viaggio in auto, insieme alla nipote Daniela, nata nel 1970, e ai loro due figli Guido e Silvia, classe 1979 e 1971. Disse che erano partiti verso le ore 9 del mattino da Rimini, diretti al Passo del Tonale; impossibile che il marito si trovasse alla stazione di Bologna durante la strage (alle famigerate ore 10,25 del mattino). Una ordinaria scampagnata: se non fosse che mai la famiglia si era riunita per una vacanza – “mai ero andata in gita con mio padre”, dice la figlia Silvia.
Le intercettazioni hanno poi offerto sincero materiale d’accusa, non influenzato da fattori esterni: Maurizia ha una doppia, intima convinzione: 1) l’uomo ripreso alla stazione di Bologna è l’ex marito (“per me è lui”); 2) la mattina del 2 agosto 1980 Paolo Bellini era a Bologna (“è dimostrato che era a Bologna”). Ne è convinto anche il figlio Guido (“sì, lui ha dormito a Bologna due giorni in stazione o tre”). Ci siamo già soffermati in precedenti articoli sulla circostanza che diede coraggio alla signora Bonini: la scomparsa del suocero Aldo, “il Padreterno in casa” cui tutta la famiglia doveva sottostare, e in particolare lei e sua cognata, impiegate nell’albergo di famiglia. Maurizia doveva ubbidire, ubbidire e basta, anche la moglie lo temeva, e tutti dovevano fare ciò che lui diceva.
Era stato Aldo a organizzare una rete di protezione familiare saldissima attorno a Paolo, procurandogli il nome finto di Roberto Da Silva, anche durante la sua detenzione carceraria (anni 1981-1982): Aldo sapeva tutto delle attività del figlio, la cui caratura criminale la magistratura aveva messo a fuoco da tempo: “È dotato di notevole capacità delinquenziale, desumibile sia dai motivi che lo condussero a celarsi sotto le mentite spoglie di Roberto Da Silva (sfuggire alla cattura dopo avere sparato contro il Relucenti, ritenuto amante della sorella) sia di precedenti penali, in particolare dall’attività furtiva durante la latitanza, sia dalle condizioni di vita familiari nell’ambito di un gruppo che i Carabinieri descrivono verosimilmente, con specifici riferimenti a una serie di fatti, come una sorta di clan teso ad acquisire e a salvaguardare con la violenza una notevole posizione economica” (Corte di assise di appello di Bologna, sentenza del 2/7/1985, in un procedimento a carico di Paolo Bellini e di altri per il tentato omicidio dell’avvocato Carmelo Cataliotti e di una serie di reati connessi).
Dissolto il cordone sanitario, ecco che la signora Bonini riesce a riappropriarsi della sua volontà e riconosce l’ex marito Paolo nel filmato girato alla stazione di Bologna. Lo riconosce con certezza, mantiene fermo il riconoscimento al cospetto delle critiche del figlio Guido che, sulle prime, rifiuta il coinvolgimento del padre nella strage di Bologna; demolisce definitivamente l’alibi fornito dall’imputato, quello di essersi recato a Rimini alle 9-9,30, al fine di prelevare la famiglia per poi raggiungere il Passo del Tonale. La faccenda è stata approfondita con il necessario rigore sulla base di analisi fisionomiche estremamente approfondite, che hanno retto alle (inutili) contestazioni della difesa.
Un altro elemento di straordinario interesse è la ormai famosa intercettazione ambientale in casa di Carlo Maria Maggi, autore dell’eccidio di Brescia, all’epoca dei fatti leader di Ordine nuovo in Veneto, organizzazione, come abbiamo già raccontato, coinvolta nella fase di progettazione della strage di Bologna, quanto meno a livello di consapevole connivenza. Maggi, parlando con il figlio, si riferisce all’aviere – Bellini lo era – come colui che aveva portato l’esplosivo per la stazione. Torniamo sul punto solo per far notare una strana interferenza della polizia scientifica, che ha deciso in piena indagine di entrare in campo in modo prepotente, senza nessuna delega – gravissimo! – intervenendo direttamente sul file dell’audio della intercettazione di Maggi con un software acquistato ad hoc, mai utilizzato in precedenza, pretendendo di provare – senza successo – che Maggi non avrebbe pronunciato la parola aviere ma corriere. Un apparente piccolo depistaggio, notato dall’accusa, che ha vibratamente protestato respingendolo al mittente.
Paolo Bellini e la destra eversiva
Bellini entrò a far parte di Avanguardia nazionale sin dai primi anni Settanta, entrando nel gruppo di Massa Carrara capeggiato dal latitante Piero Carmassi. Fu il padre Aldo a dargli quell’incarico, per conto dell’avvocato e senatore del Movimento sociale italiano Franco Mariani: gli chiedevano di raccogliere informazioni sui circoli emiliani e toscani dell’estrema destra, ma poi Paolo partecipò con sincera adesione ideologica, come precisò lui stesso negli interrogatori, avendo in dotazione armi ed esplosivi. Il segretario Almirante era ovviamente al corrente di tutto.
Oltre agli intrecci che collocano Bellini in prossimità del leader avanguardista Stefano Delle Chiaie (Franco Mariani era difensore di Delle Chiaie, come l’avvocato Stefano Menicacci, che introdusse Bellini nell’ambiente aeronautico di Foligno), due nomi provano il suo ruolo non secondario nella destra neofascista: Elio Massagrande e Gaetano Orlando. Due personaggi di grosso calibro del terrorismo nero. Bellini venne ospitato a Madrid da Pietro Carmassi, il già citato capo della sezione di Avanguardia nazionale di Massa, prima di fuggire in Sudamerica, con il sostegno dell’organizzazione e usando il falso passaporto già utilizzato da Elio Massagrande: questi, dunque, favorì la latitanza di Paolo in Paraguay; negli anni 1979-1980, Paolo ebbe stabili contatti con Gaetano Orlando, i due si frequentarono assiduamente ad Asunción, come confermò anche Orlando in un interrogatorio del ’92. Massagrande è stato l’ideologo e il fondatore di Ordine nuovo, punto di riferimento dei terroristi di destra, e godeva in Paraguay di ricchezza e potere, tanto da essere vicino al generale Stroessner, il presidente-dittatore; Orlando era il principale collaboratore di Carlo Fumagalli, leader del Movimento armato rivoluzionario che si dedicò a lungo ad azioni terroristiche nell’Italia del Nord, contorno di un piano golpista.
Gli ambienti informativi
Parlando di lui, il figlio Guido esprimeva la naturale consapevolezza, non contraddetta dalla madre, che Paolo Bellini, all’epoca della strage, “lavorava per lo Stato”. In effetti, Bellini, come tutti gli uomini di punta del terrorismo nero, è un uomo che gode delle tutele di ambienti informativi. Innanzitutto, è provato lo spregiudicato depistaggio realizzato dal Servizio segreto militare per coprire le responsabilità dell’omicidio del militante di sinistra Alceste Campanile; successivamente si assunse egli stesso la responsabilità del delitto, dopo vent’anni dai fatti, riuscendo a presentarsi come un collaboratore di giustizia ben disposto verso lo Stato; poi sappiamo degli stretti rapporti tra suo padre Aldo e il procuratore Sisti, che propose a Paolo di prendere contatto con un suo uomo legato ai Servizi: naturalmente Paolo dice di aver rifiutato, nonostante svolgesse già una attività informativa per i due sodali.
A questo punto, viene da chiedersi: perché un personaggio così viene ingaggiato dall’Arma dei carabinieri? Bellini nel ’92 intrattenne rapporti di confidenza con il maresciallo Roberto Tempesta: lui dice di essersi infiltrato dentro Cosa nostra per suo conto; il maresciallo sostiene che Bellini prese autonomi contatti e poi si mise a dispozione per il recupero di opere d’arte trafugate: attività che lo portò dritto dritto dentro il covo di Nino Gioè e Giovanni Brusca, suggerendo attività di intimidazione che colpissero le opere d’arte. Lo presentò a Tempesta Agostino Vallorani – un criminale legato a un antiquario saldamente legato alla vicenda finanziaria di Roberto Calvi, Sergio Vaccari,assassinato a Londra il 16 settembre 1992, tre mesi dopo l’omicidio di Calvi e tre giorni dopo l’arresto di Licio Gelli. L’arresto di Bellini, nel novembre del 1992, mise fine a quella strana collaborazione con il Ros.
Il nostro avanguardista aveva dunque una certa propensione a mettersi a disposizione di organi dello Stato per operazioni assai opache, a “rischiare” per mero interesse economico, a farsi tramite con organizzazioni criminali del calibro di Cosa nostra, con una disinvoltura stupefacente. Ma il ruolo di Bellini come interlocutore di istituzioni dello Stato non deve stupire. Stefano Delle Chiaie era il braccio destro di Federico Umberto D’Amato, così come Gaetano Orlando e il suo capo Fumagalli, erano espressione di un comparto segreto del ministero dell’Interno, raccontato dalla straordinaria deposizione di Vincenzo Vinciguerra; Elio Massagrande, per esplicita affermazione del suo amico Orlando, “lavorava per i servizi segreti italiani”, peraltro insieme al maggiore Amos Spiazzi, ufficiale infedele e capo di una banda armata chiamata Rosa dei venti.
Siamo sempre allo stesso punto: chi diede l’ordine a uomini dello Stato di collaborare con i neofascisti? È lì il segreto della Repubblica.