
I partiti socialisti sono da sempre organismi delicati. A differenza dei partiti comunisti, che ostentavano, magari anche non avendolo, un carattere fortemente monolitico, quelli socialisti sono programmaticamente divisi in correnti di diversa natura (in Italia ne sappiamo qualcosa: dalle posizioni anarco-sindacaliste di primo Novecento – inizialmente dentro e poi fuori dal partito, pronte a confluire infine, in gran parte, nel fascismo – alla divaricazione, con svariate modulazioni, tra massimalisti e riformisti, e con l’ingloriosa conclusione nella gestione Craxi, che mise a tacere le correnti e distrusse il partito). Il nucleo utopico della loro proposta è rappresentato dalla “coalizione sociale” che mediante l’articolazione correntizia essi esprimono o dovrebbero esprimere: un tempo quella tra classi lavoratrici e piccola borghesia democratica, oggi, non sapendo più esattamente come sintetizzare un discorso intorno alle classi, potremmo dire tra una parte dei nuovi ceti urbani progressisti, tecnici e intellettuali, e una porzione (quanto consistente?) di forza-lavoro salariata fedele alla speranza di un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Tutto questo ha a che fare comunque con un’utopia depotenziata, diciamo così, che di una “rottura con il capitalismo” – per usare una formula che fu inizialmente della presidenza di Mitterrand, nel 1981 – evita ormai di parlare.
In Francia – Paese in cui la sinistra ha ancora una presenza importante, come ha mostrato la splendida performance elettorale dell’estate scorsa, che solo per l’ottusa arroganza di Macron, consentitagli dall’ordinamento costituzionale della Quinta Repubblica, non ha condotto a un governo progressista, sia pure di minoranza, ma al succedersi di due esecutivi mediocremente centristi, altrettanto di minoranza e solidali, nei provvedimenti che sono riusciti a far passare, con l’estrema destra – in Francia, si diceva, il Partito socialista è da anni in affanno, con un insediamento ridotto (poco meno di quarantamila iscritti) dopo le due secessioni: quella di Macron, e altri come lui, sulla destra, e, prima ancora, quella di Mélenchon sulla sinistra.
Quest’ultimo si era posto l’obiettivo, alla fine non raggiunto, di distruggere il Partito socialista; è riuscito sì a scalzarlo dalla sua posizione di partito egemone della sinistra, non però a fagocitarlo. Negli ultimi sette anni della segreteria di Olivier Faure, infatti, talvolta alleandosi con il gruppo di Mélenchon, talaltra polemizzando con lui, i socialisti sono riusciti a sopravvivere, e, grazie alla politique politicienne di cui sono maestri, nell’Assemblea nazionale hanno quasi un eguale numero di deputati rispetto a Mélenchon. Ovviamente, questo dipende anche dal sistema elettorale francese a doppio turno, che premia ai ballottaggi chi è radicato nei territori e, soprattutto, chi ha saputo stringere alleanze.
Ora Faure – nel recente congresso, l’ottantunesimo, tenutosi nella parte finale a Nancy – è stato rieletto con il 51% delle preferenze espresse dagli iscritti, anche in questo caso con un meccanismo a doppio turno. Il candidato perdente, e tuttavia con la metà del partito dietro di sé, è il sindaco di Rouen, Nicolas Mayer-Rossignol, con un programma di definitiva rottura con Mélenchon. Una scelta che, più che “di destra”, sarebbe stata suicida per il Partito socialista e l’intera sinistra. Nel caso di nuove elezioni legislative anticipate, infatti, solo una riproposizione del cartello elettorale che va dalla France insoumise, passando per i comunisti e gli ecologisti, fino ai socialisti, sarebbe in grado, per la seconda volta, di fermare l’avanzata dell’estrema destra di Marine Le Pen. E alle presidenziali, previste nel 2027, se al primo turno è giusto presentare una candidatura unitaria che prescinda dal protagonismo narcisistico di Mélenchon (il quale intende candidarsi per la quarta volta), va comunque considerato che, al secondo turno, in un ballottaggio che sarà contro l’estrema destra (Bardella o Le Pen, questo è da vedere, visti i guai giudiziari della leader), nel caso di una qualificazione di un candidato o una candidata della sinistra moderata, sarà comunque necessario ricevere i voti provenienti dall’elettorato più radicale. Dunque mettere scritto, nero su bianco, come avrebbe voluto la destra del partito, che non si faranno mai più accordi con Mélenchon, non avrebbe avuto alcun senso.
Resta il fatto che il Partito socialista francese è spaccato a metà. Ciò non ne renderà agevole la navigazione, ma, d’altra parte, c’è da rallegrarsi che Faure sia stato riconfermato segretario, perché la sua linea politica, per quanto oscillante e opportunistica, ha permesso ai socialisti di essere ancora in campo. Di non essere cioè finiti nella morta gora di un partito genericamente liberaldemocratico (com’è accaduto in Italia con il Pd), lasciandosi sedurre dalla sirena di Macron, e neppure di essere assorbiti in una prospettiva leaderistica e di “populismo di sinistra” come quella di Mélenchon.