
Hannah Arendt sosteneva che gli ebrei, di solito poco interessati alla politica, non avessero compreso il pericolo che stavano correndo, spesso consegnandosi ai loro carnefici senza opporre resistenza. Per un fenomeno che potremmo definire di ipercorrezione, gli israeliani non solo si interessano alla politica, ma lo fanno soprattutto nel suo estremo prolungamento, cioè nella forma della guerra. Ciò che è sbalorditivo è che, messe da parte le remore circa la sorte dei loro ostaggi a Gaza, una stragrande maggioranza dei cittadini e delle cittadine di Israele, nonostante sappiano perfettamente chi sia Netanyahu, abbia appoggiato i recenti attacchi all’Iran.
L’ultima guerricciola, chiamiamola così, non solo ha dimostrato di non poter distruggere in maniera definitiva il programma nucleare iraniano, ma ha prodotto vittime e danni non da poco nelle stesse città israeliane. Rispetto alle scaramucce di alcuni mesi fa, gli iraniani hanno aggiustato il tiro. Resta la propaganda del governo di estrema destra, avviato sempre più verso una deriva teocratica, sostanzialmente speculare a quella del regime degli ayatollah. Ma alla maggioranza degli israeliani non sembra venire in mente che la politica internazionale non è soltanto la guerra, che esistono le vie della diplomazia e dei negoziati, e che andrebbe anzitutto risolto l’annoso problema palestinese, per poter vivere nel Paese se non proprio tranquilli (ci sarebbe sempre il rischio di attentati), almeno con una notevole riduzione delle tensioni.
Non è nemmeno il sionismo in sé il problema. Perché questa ideologia, pur nazionalistica, potrebbe essere declinata – e in passato lo è stata – in vari modi, evitando le tonalità più estreme. Ma il fatto che, negli scorsi decenni, abbia preso corpo una posizione sempre più intransigente, a dir poco, con la continua occupazione di territori da parte dei coloni, con l’apartheid nei confronti dei palestinesi, con il puntare sulle divisioni nel campo avverso, arrivando fino a sostenere Hamas a scapito dell’Autorità nazionale palestinese, con tutto ciò che ne è seguito, non ha avuto come effetto una presa di coscienza pacifista da parte dell’opinione pubblica israeliana. Nell’insieme, prevale la fascinazione nei confronti della violenza bellica. Di qui non solo la spietata distruzione di Gaza – una punizione collettiva, com’è stato detto – ma il tentativo di eliminare per sempre da quel territorio qualsiasi presenza palestinese.
Forse una spiegazione per tutto questo sta in quella che, sul piano della psicologia individuale, si chiama “fissazione al trauma”. Si tratta di una mancata elaborazione, che fa sì che il soggetto riviva costantemente, senza capacità di staccarsene, gli eventi traumatici trascorsi. Se per un individuo ciò è comprensibile, lo è però molto meno nell’ambito di una psicologia collettiva. Eppure, se ci si pensa, il fatto che il 7 ottobre 2023 sia stato per lo più vissuto come un pogrom, o come una ripetizione dello sterminio pianificato messo in atto dai nazisti, indica che non si riesce a cogliere le differenze storiche, e politiche, tra ciò che accade oggi e ciò che accadeva ieri. Non c’è un paragone possibile tra quanto è avvenuto con il feroce attacco di Hamas e quanto capitato agli ebrei in passato: l’antisemitismo islamista, che pure esiste, non è quello europeo occidentale o quello russo – da cui viene la parola “pogrom”. Se un paragone può essere fatto – anche qui, tuttavia, da prendere con le pinze – è con quel terrorismo che metteva le bombe nei caffè, facendo strage di civili, per esempio durante la guerra d’Algeria.
La strage e la cattura di ostaggi perpetrate da Hamas non hanno il segno di una persecuzione degli ebrei in quanto tali; sono forme stravolte di una lotta di liberazione palestinese ormai incancrenitasi in una dimensione fanatica. La destabilizzazione cui ha dato luogo – e che, in quanto tale, non pare sia stata approvata nemmeno dagli ayatollah iraniani, i quali hanno chiara la percezione, come si è potuto vedere successivamente, di essere più deboli rispetto a Israele – si è ritorta in primo luogo contro gli stessi abitanti di Gaza, facendo il gioco delle posizioni israeliane più oltranziste.
Dunque – ed è il punto veramente dolente – una ragione non inficiata dalla fissazione al trauma, risalendo indietro lungo la catena degli eventi e mettendoli in ordine, dovrebbe arrivare alla conclusione che può esserci un’altra politica, diversa da quella crudamente bellicista portata avanti da Netanyahu. Ma l’appoggio dato agli attacchi all’Iran, dalla prevalente opinione pubblica israeliana, rende palese come quella ragione libera dal trauma non s’intraveda ancora.