
È appena uscito e già suscita interrogativi e riflessioni critiche. D’altra parte, non poteva andare diversamente per un libro che non si accoda a una narrazione consolidata, che vede il lavoro come un problema superato nell’era della grande finanza e dell’intelligenza artificiale. Laura Pennacchi (Nonostante Hobbes: lavoro, antropologia, democrazia, Castelvecchi, 25 euro) rovescia i piani e riparte proprio dal lavoro, dalla sua centralità nello sviluppo della società e delle persone. Una riabilitazione, un rilancio, che dovrebbero promuovere non solo una comprensione più profonda del presente – quel salto antropologico di cui si parla spesso, senza tuttavia intendere in che cosa consista –, ma anche una nuova proposta di trasformazione della sinistra. Si tratta del ripensamento di un intero apparato teorico, probabilmente di una svolta nelle analisi e nelle proposte politiche, che comunque fa giustizia di alcuni luoghi comuni che hanno caratterizzato l’epoca del neoliberismo e della “fine del lavoro”, e di cui, secondo Pennacchi, l’inventore, Jeremy Rifkin, pur accortosi di essersi sbagliato, in fondo non si è mai pentito.
Che le tesi di Pennacchi possano essere considerate un azzardo, lo si è visto già dalla prima presentazione pubblica (il 19 giugno a Roma, nella sede dell’Enciclopedia italiana) alla quale, insieme a Giuliano Amato nella veste di moderatore, hanno partecipato studiosi che sul tema si sono impegnati negli anni, anche se su fronti accademici diversi. Il punto che suscita maggiore discussione riguarda il cuore del libro, la critica a una linea di pensiero che da Machiavelli arriva agli ideologi della destra, passando per Hobbes. Secondo l’autrice, Machiavelli e Hobbes, sebbene molto diversi tra loro, sono autori accomunati dall’avere costruito una “terribile antropologia”, una visione negativa dell’uomo basata sull’individualismo e sulla malvagità dell’homo homini lupus. “Gli stereotipi dell’egoismo costitutivo dell’essere umano – si legge nel libro di Pennacchi – della sua brama inesauribile di possedere, della sua malvagità naturale innata, sono stati inculcati potentemente fino a diventare parte integrante del corredo psichico e fisico di molte persone”.
Secondo Giuliano Amato, e anche secondo il filosofo Giacomo Marramao, è sbagliato però abbinare Machiavelli a Hobbes, e comunque non è utile riproporre una lettura stereotipata dei due grandi pensatori, visto che – sia Machiavelli sia Hobbes – hanno dato un contributo positivo e non solo negativo alla definizione di “uomo” (Hobbes, per esempio, ricorda Marramao, a differenza di Aristotele metteva le donne sullo stesso piano degli uomini). Amato, Marramao, e ancora Stefano Petrucciani ed Elena Granaglia, sono invece d’accordo sulla prima e terza parte del libro (la prima riguarda la svalutazione del lavoro, la terza le proposte politiche per rilanciare la questione in termini attuali).
L’economista Granaglia condivide l’analisi circa la totale svalutazione del lavoro, avvenuta negli ultimi trent’anni; si distingue però da Pennacchi nel giudizio sul reddito di cittadinanza. L’autrice di Nonostante Hobbes è convinta che – per combattere le diseguaglianze e per ridare speranza a milioni di persone soggiogate dagli ingranaggi del capitalismo finanziario – non si dovrà ripartire dalla ridistribuzione delle risorse, e quindi dal reddito, ma dalla creazione di lavoro nuovo, anche da parte di uno Stato nella veste di datore di lavoro di “ultima istanza”. Per Elena Granaglia, invece, è sbagliato vedere il “reddito di base” solo come un tassello delle politiche ridistributive, e comunque bisognerà stare molto attenti a riproporre politiche da “lavori socialmente utili”.
Fatti i distinguo su Machiavelli e Hobbes, il filosofo Petrucciani attira l’attenzione su un altro rischio, quello di costruire le analisi intorno a un’idea omogenea di capitalismo, che neppure Marx ha mai proposto. Ci sono vari tipi di capitalismo, e si tratterebbe piuttosto di superare un’accettazione acritica delle leggi del mercato, come sembra non fare l’Europa che – a differenza di quello che auspicherebbe Laura Pennacchi – non costruisce le sue politiche sul diritto del lavoro, ma sul diritto a lavorare e sulla centralità dell’impresa e della proprietà privata.
Nonostante Hobbes viene quindi letto in modi diversi, ma, a giudicare dalla prima presentazione, sembra avere il merito, prima di tutto, di avere fatto ritornare di attualità un approccio alle questioni che sembrava ormai seppellito. Nel libro, si tenta infatti di andare a fondo sulla natura del lavoro e dell’uomo, senza cadere nella trappola del rilancio di teorie basate esclusivamente sulla contrapposizione economica tra classi sociali, o in quella di perdersi nella ricerca di un nuovo soggetto rivoluzionario che dovrebbe sostituire, nell’epoca dell’intelligenza artificiale, l’antica classe operaia di Marx ed Engels. Un tema che rimane comunque aperto, e che alcuni autori (il nostro Michele Mezza, per esempio) traducono nella necessità di rilanciare il conflitto contro il sistema capitalistico al livello più alto, quello di chi è al vertice della società del calcolo. Nel libro di Pennacchi, Mezza viene citato a proposito della sostituzione delle regole con i dati, “un tecno-integralismo digitale che si appropria dei dati per gerarchizzare il mondo”, in riferimento al suo libro Connessi a morte.
Pennacchi sembra però interessata a individuare, piuttosto, le vie di un’antropologia positiva, riprendendo il filo delle elaborazioni di Fromm e Marcuse (e delle teorie più recenti degli eredi della Scuola di Francoforte), superando alcuni approcci che hanno condizionato negativamente lo sviluppo del pensiero di sinistra. Pennacchi non esita, per esempio, a criticare le tesi di Hannah Arendt sulla distinzione tra lavoro e opera (in Vita activa). L’autrice cita inoltre le tesi di papa Francesco sul lavoro e sullo sfruttamento, e ammette comunque che – per ribaltare la narrazione della “terribile antropologia” di Machiavelli e Hobbes – non basterà riproporre un’etica della “vita buona”, ma servirà fare riferimento anche a un’etica “deontologica” di kantiana memoria.
In ogni caso, la novità del libro riguarda, da una parte, il superamento degli steccati che finora hanno separato l’economia dalla filosofia e dall’antropologia (centrale, nella riflessione di Pennacchi sull’antropologia, il libro di David Graeber e David Wengrow, L’alba di tutto); dall’altra, la passione e il coraggio con cui si rilanciano politiche considerate appunto archeologia, roba da vecchi socialisti, come le proposte per “una piena e buona occupazione”, mediate da Keynes e Minsky. Nel libro, si parla anche di un progetto di legge elaborato da un gruppo di esperti coordinati dalla stessa autrice, che ripropone un’idea di “umano nonostante Hobbes”, secondo cui solo attraverso una rivalutazione del lavoro si potrà salvare una democrazia sotto assedio. “Senza democrazia del lavoro, senza la democrazia mediante il lavoro – sostiene Pennacchi – la lotta per la democrazia è perduta”.