
Sabato 14 giugno, la Sardegna ha scritto un nuovo capitolo della sua storia di resistenza alla militarizzazione. Migliaia di persone si sono ritrovate a Decimomannu, nel sud dell’isola, a pochi chilometri da Cagliari, per manifestare contro le esercitazioni congiunte della Nato, che proseguono da settimane nelle basi militari sul territorio sardo. La protesta, convocata dal movimento A Foras (Fuori!), ha preso di mira una delle strutture simbolo del dominio militare in Sardegna: l’aeroporto utilizzato da forze italiane, tedesche e statunitensi, denunciando la complicità dell’industria delle armi nelle tensioni geopolitiche mondiali.
Secondo quanto riportato dal comitato, i manifestanti hanno subìto un clima di intimidazione: alcuni accessi al paese erano interdetti, e diverse persone sono state perquisite senza motivo evidente. Nonostante il massiccio dispiegamento delle forze dell’ordine, il corteo ha tentato di deviare dal percorso autorizzato per avvicinarsi al perimetro della base. A quel punto, la manifestazione pacifica si è trasformata in scontro: come documentano foto e video pubblicati da attivisti e osservatori indipendenti, la polizia ha lanciato lacrimogeni e usato un elicottero come sfollagente, sorvolando i manifestanti a bassa quota e generando forti correnti d’aria. Azione pericolosa, che ha generato un incendio nei campi attorno al corteo, propagatosi rapidamente e poi domato con difficoltà. Secondo il movimento A Foras, infatti, proprio la combinazione tra i gas e il vento generato dalle eliche, avrebbe innescato le fiamme.
Nessun ferito grave è stato registrato, ma l’episodio ha suscitato forti polemiche sull’uso sproporzionato della forza e sulle tecniche impiegate per disperdere un corteo fino a quel momento pacifico. “La leggerezza con cui hanno messo a rischio l’incolumità di tanti manifestanti ci dà solo la conferma di essere dalla parte giusta e di dover continuare a lottare”, si legge nel comunicato di A Foras.
Bandiere palestinesi hanno accompagnato il corteo: la protesta di Decimomannu si collega direttamente alla solidarietà con il popolo palestinese, in un momento in cui le operazioni militari genocidarie di Israele a Gaza scuotono le coscienze e mobilitano attivisti in tutta Europa. Proprio il giorno prima della manifestazione, un attivista era stato arrestato per il lancio di un petardo durante una precedente protesta, nel porto di Cagliari, contro le navi militari partecipanti all’esercitazione congiunta Joint Stars.
L’indignazione che attraversa oggi la Sardegna ha radici profonde, che risalgono almeno al giugno del 1969, quando un’intera comunità – quella di Orgosolo – si sollevò pacificamente contro la trasformazione dell’altopiano di Pratobello in un poligono militare permanente. Allora, come oggi, il governo parlò di “difesa nazionale”: si promisero indennizzi per pastori e allevatori costretti ad abbandonare le terre, ma i cittadini risposero con una resistenza nonviolenta. Il 9 giugno 1969, oltre 3.500 persone si mobilitarono per occupare pacificamente i pascoli minacciati dall’Esercito italiano. All’epoca, la pressione popolare costrinse lo Stato a ritirarsi: le esercitazioni non si fecero e il poligono non fu mai realizzato. Quella di Pratobello fu una vittoria popolare che fece scuola, simbolo di un’isola che non accetta di essere retrovia militare dell’Occidente, di esistere solo in quanto luogo di villeggiatura o punto di addestramento militare. Oggi come allora, infatti, la Sardegna ha una funzione strategica nel Mediterraneo, ed è stata trasformata, insieme alla Sicilia (pensiamo alla famosa Sigonella in provincia di Siracusa), in una delle più grandi piattaforme militari d’Europa, con basi Nato, americane e italiane, poligoni di tiro, radar e depositi di armi. In nome della sicurezza, interi territori sono stati sottratti alla popolazione civile, devastati da esplosioni, inquinamento e desertificazione.
Solo nel 2022, nel mare cristallino della Sardegna meridionale, sono stati ritrovati sedici ordigni inesplosi della Seconda guerra mondiale. L’isola, inoltre, ospita uno dei poligoni militari più grandi d’Europa, con una superficie di circa 7200 ettari, quello di Capo Teulada, a soli 50 km da Decimomannu. Qui si trovano buche che arrivano a un diametro di tre-quattro metri, derivate da esplosioni di cinquecento-seicento chili di tritolo e una serie di bombe inesplose contaminanti. Il comitato locale A Foras denuncia famiglie spezzate dai tumori, aziende in declino e aree strappate alla popolazione autoctona, nonché la distruzione di un ecosistema naturale di prestigio. Chiedono da decenni, senza alcun risultato, che la zona sia bonificata e restituita alla comunità locale.
Nel contesto geopolitico attuale, dall’invasione dell’Ucraina al genocidio in corso a Gaza, fino alla guerra di Israele contro l’Iran, l’antimilitarismo non deve rimanere un pensiero astratto, ma dare vita a un’azione necessaria a partire dal livello locale. Come ha scritto il filosofo Étienne Balibar: “Non si può parlare seriamente di pace se non si assume l’antimilitarismo come condizione preliminare: ogni ordine armato è una pace dei dominanti, sempre pronta a esplodere in nuova violenza”.
L’antimilitarismo sardo non è né romantico né nostalgico. È una pratica concreta di opposizione, una critica profonda al modello di sviluppo e di dominio che trasforma le periferie geografiche in avamposti strategici, i territori in bersagli e le popolazioni in sorvegliati speciali. È anche un grido collettivo per un’altra idea di futuro: un futuro in cui la cura del territorio e la convivenza pacifica abbiano la priorità sulle esercitazioni e sugli affari delle multinazionali belliche. La bandiera palestinese, che ha sventolato davanti ai reticolati di Decimomannu, è il simbolo di un legame che unisce le lotte locali alle ingiustizie globali. Come nel 1969, anche oggi la Sardegna insegna che la disobbedienza civile può farsi storia. E che, contro la guerra, si può ancora resistere.