
La guerra è ormai una serie di “esecuzioni extragiuridiche “, scrive Grégoire Chamayou nel suo preveggente saggio Teoria del drone. Intende che, anche quando sembra che si spari nel mucchio, come appare a Gaza con l’ecatombe prodotta dai bombardamenti, ogni singola vittima è scansionata e individuata prima di essere colpita. Di collaterale non ci sono più gli effetti ma i bersagli. Quel marchingegno, considerato fino a qualche anno fa poco più di un intrigante giocattolo – il drone –, oggi è diventato sinonimo di un inesorabile apparato di individuazione ed eliminazione mirata, ed è l’emblema di una inedita modalità di combattimento, che non conosce ormai limiti né temporali né geografici.
L’equipaggiamento di risorse di intelligenza artificiale, combinate con il riconoscimento facciale, trasforma il volo in un rito micidiale di programmazione delle traiettorie mortali. L’elemento terribilmente innovativo è la capacità di calcolo, che trasforma ogni informazione sulla popolazione di un territorio in un dossier per colpire a ragion veduta. I dati – ogni dato, anche quello apparentemente più frivolo e banale – sono oggi una traccia di intelligence che permette di inquadrare un bersaglio con il minimo margine di errore.
L’attacco israeliano all’Iran, con la conseguente reazione degli ayatollah, ha messo in vetrina anche una nuova arma letale. Si tratta di quella complessa e ramificata trama cospirativa che ha sbaragliato ogni difesa dei pur agguerriti “guardiani della rivoluzione”, mostrando come ognuno di noi, ovunque viva e per qualsiasi cosa operi, sia “connesso a morte” (come sostenevo in un libro pubblicato un anno fa). Si tratta di quella nebulosa organizzativa, che ha visto insediarsi nel territorio iraniano un vero e proprio arsenale israeliano, composto di droni e sistemi logistici di appoggio e di elaborazione dati, e che ha scavalcato ogni sistema difensivo raggiungendo nominativamente decine di vertici del complesso militare-industriale del regime di Teheran.
Da quanto si può evincere, dalle poche informazioni che trapelano, il Mossad sarebbe riuscito a infiltrare, nel cuore delle città più strategiche della rete di sviluppo delle tecnologie nucleari a cui lavoravano scienziati e militari iraniani, nuclei specializzati che avrebbero allestito e occultato per molti mesi, o forse anni, i componenti adatti a costruire, direttamente sul campo, quelle decine di droni che stanno ora inquadrando e colpendo i membri delle élite nucleari del Paese.
Un’operazione che, per i tempi e i modi con cui è stata realizzata – e soprattutto per il requisito essenziale di cui si è avvalsa, la complicità di alcuni dei centri di comando dei servizi di sicurezza iraniani –, va collegata alla devastante impresa dei pagers, i cercapersone che hanno decimato gli alti ufficiali della milizia filoiraniana hezbollah a Beirut (vedi qui). Parliamo di piani che risalgono a svariati anni fa, da cinque a otto, messi in cantiere al tempo della disdetta dell’intesa nucleare fra Washington e Teheran, conclusa da Obama e cancellata dalla prima presidenza Trump.
A quel tempo, Tel Aviv decide di portare all’incasso crediti maturati con esponenti importanti degli apparati militari del regime, procedendo alla più grande operazione di infiltrazione e dissimulazione di cui si abbia notizia dal tempo della famosa “banda dei cinque” di Cambridge, gli altissimi funzionari del controspionaggio inglese che lavoravano per i sovietici all’inizio degli anni Sessanta.
Da una parte, accredita, contando su interessate complicità, le società che venderanno i pagers che esploderanno nelle tasche degli hezbollah; dall’altra, tesse la rete di una vera e propria comunità in sonno di agenti israeliani che cominciano a vivere in Iran, creando luoghi sicuri per la logistica futura.
Come spiegava il nostro Adriano Olivetti, l’informatica è sempre politica concentrata, e deve fare i conti con il consenso sociale. È evidente che questa strategia israeliana si sia nutrita delle forme di opposizione strisciante che il dominio degli ayatollah ha fatto crescere in quegli interstizi della nomenclatura di Stato, che stanno cercando di preparare una successione al regime. Le tecnologie si confermano sistemi essenzialmente relazionali, non deterministiche regole tecniche.
Oggi il nodo che si profila non riguarda tanto il confronto militare, quanto la tenuta parallela dei vertici politici che si stanno combattendo: Netanyahu e Khamenei. Chi dei due ha alle spalle interessi e forze più rappresentative per usare la guerra come “liberazione”?