
Ancora una volta, il Sudan si trova al centro della più grande catastrofe umanitaria mondiale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), reso noto ai primi di giugno, dopo due anni di guerra civile (iniziata nell’aprile 2023, vedi qui), quattro milioni di persone sono state costrette a fuggire dal Paese. È il più grande movimento di popolazione, nel mondo, nell’arco di due anni. Senza contare le decine di migliaia di morti.
Dei quattro milioni di nuovi profughi, un milione e mezzo ha trovato riparo in Egitto, oltre un milione nel Sud Sudan, e 850mila nel Ciad, dove già ne erano presenti quattrocentomila. I rifugiati sudanesi in Ciad ammontano ora a oltre 1,2 milioni; ed è in questo Paese che la crisi umanitaria si fa sentire più pesantemente, a causa di un flusso continuo giornaliero e della mancanza di infrastrutture per l’accoglienza. La crisi finanziaria degli organismi umanitari si avverte anche qui. Inoltre, la consegna degli aiuti di emergenza è resa difficile dalla situazione della guerra: alcuni giorni fa un convoglio di prodotti alimentari, diretto alla città assediata di El Fasher, nella parte occidentale del Paese, è stato attaccato; quindici camion sono stati incendiati, lasciando sul terreno cinque vittime e diversi feriti. Le due parti in conflitto si accusano a vicenda dell’accaduto. Intanto, tutto il Paese è coinvolto nella più vasta crisi alimentare e umanitaria mondiale, che tocca oltre la metà dei circa quarantacinque milioni di abitanti.
Da due anni, la guerra civile vede contrapporsi due generali, leader e alleati in quella che fu la giunta militare al potere: Abdel Fattah al-Burahm e Mohamed Hamdam Dagalo, detto Hemetti. Il primo, già presidente della giunta, è a capo dell’esercito regolare ereditato dal regime islamista di al-Bashir, mentre il secondo – uno degli uomini più ricchi del Sudan e già vicepresidente della stessa giunta – è a capo di milizie paramilitari della Rapid Support Forces (Rsf), create nel 2013, eredi delle milizie janjawid, autrici dei massacri nella guerra civile nel Darfur, negli anni 2000. Dopo la caduta del regime, la loro alleanza è stata di pura convenienza.
Va ricordato che la giunta militare era nata dal tentativo di soffocare l’ondata di proteste popolari che avevano portato, nell’aprile 2019, alla caduta del regime islamista di Omar al-Bashir (1989-2019), una replica della caduta del precedente dittatore, Nimeyri, dopo sedici anni alla testa del Paese (1969-1985). L’esercito è da sempre il perno del potere – ma il Sudan ha anche una straordinaria società civile organizzata, in grado di tenere testa ai militari, i quali hanno risposto alla solita maniera, accordando a se stessi un potere esclusivo.
La guerra civile è scoppiata per le rivalità personali tra i due generali, ma è alimentata di continuo grazie alle forniture di armi e alle influenze esterne. In prima linea, gli Emirati arabi uniti che sostengono, ancora prima della guerra civile, i paramilitari della Rsf, attraverso la fornitura di armi sofisticate, come droni e sistemi antiaerei di provenienza cinese, e con il supporto ai mercenari colombiani infiltrati nella regione di El Fasher. Una recente inchiesta della tv France24 ha documentato che diversi Paesi europei sono implicati, in particolare la Bulgaria, con complicità anche italiane. Date le condizioni della guerra, e in generale della precarietà in cui versa la regione, gli Emirati utilizzano diverse vie per fare arrivare gli aiuti militari, con la complicità dei Paesi vicini e in violazione dell’embargo sulle armi. Da parte loro, le forze paramilitari sudanesi contraccambiano il favore con l’invio di mercenari verso lo Yemen e con il contrabbando dell’oro, che fornisce l’essenziale delle risorse finanziarie a disposizione.
L’esercito regolare può contare sull’appoggio dell’Egitto, per quanto riguarda l’intelligence militare, sull’acquisto di droni dall’Iran e soprattutto dalla Turchia, sugli aerei da combattimento da Russia, Cina e Algeria, e sul sostegno politico ed economico dell’Arabia saudita e del Qatar. I droni sono i nuovi protagonisti anche in questo scenario di guerra. All’inizio di maggio, la città strategica di Port Sudan – sulla costa del mar Rosso, tenuta dall’esercito regolare – è stata oggetto di un intenso attacco di droni durato una settimana, che ha interrotto fra l’altro il flusso degli aiuti. Il generale al-Burahm ha immediatamente accusato i paramilitari di avere fatto uso di droni di fabbricazione turca, forniti dagli Emirati, con cui ha rotto le relazioni diplomatiche. Le stesse armi peraltro alimentano entrambi i fronti, seguendo strade diverse. I droni stanno diventando i protagonisti di una guerra che non risparmia nessuno, contribuendo ad aumentare le perdite civili. Ma non vengono però meno i combattimenti sul terreno in questa guerra dimenticata (vedi qui), come dimostra l’aumento degli stupri di cui sono sistematicamente vittime le donne sudanesi, una crudeltà che ha purtroppo una lunga e tragica tradizione nella storia del Paese.
A fare gola agli attori internazionali, oltre ai proventi del commercio delle armi, sono la costa sudanese sul mar Rosso e le risorse minerarie nella parte orientale del Paese. Questo polarizzarsi delle forze esterne attorno a ciascuno dei campi avversi rischia, a sua volta, di provocare una destabilizzazione regionale e di creare nuove fratture all’interno dei singoli Stati, come se non bastassero quelle sudanesi. Particolarmente rischiosa, da questo punto di vista, appare la situazione in Ciad e in Sud Sudan.