
Cominciamo col dire che, tra le opere di Harold Pinter, Homecoming (“Il ritorno a casa”), è la più rovinosa, e anche la più disturbante. È un testo per questo poco frequentato dai nostri teatranti. L’interpretazione che si guadagnò la “benedizione” dello stesso drammaturgo inglese è quella che ne diede Paolo Bonacelli – diretto da Guido De Monticelli – alla fine degli anni Novanta (Bonacelli conserva ancora un biglietto di ammirazione con firma autografa di Pinter, di cui divenne grande amico). Ma, generalmente, i registi italiani, se proprio devono avvicinarsi a Pinter, preferiscono confrontarsi con opere più “commentabili”, per via della maggiore dose di astrazione o enigmaticità, come The Dumb Waiter (“Il calapranzi”, 1957): in questo caso, basta tirare in ballo “il potere” o “il sistema” – e tutti sono d’accordo, non si fanno domande antipatiche, la cosa va liscia come l’olio.
Massimo Popolizio, invece, si è messo in testa di portare in scena proprio Homecoming perché – sono parole sue – “è una commedia di humour nero di cui, a differenza di altre opere di Pinter, si capisce la trama” (lo spettacolo si replica fino al 25 maggio al Teatro Argentina di Roma). Il problema è che la trama in sé non dice nulla. È il linguaggio a rivelare, nascondendola, la miccia che Pinter ha acceso fuori scena.
Oltre a curarne la regia, Popolizio ha ritagliato su se stesso il ruolo di Max, un uomo orgoglioso della propria professione di macellaio (ereditata dal padre), a capo di una famiglia deragliata composta da tre figli maschi: Teddy (Eros Pascale), professore di filosofia che torna a casa dagli Stati Uniti, dove insegna, dopo sei anni; Lenny (Christian La Rosa), che tra i vari mestieri ha anche fatto il pappone; e Joey (Alberto Onofrietti), il più piccolo, scaricatore di giorno, boxeur dilettante di sera. Nella stessa casa, che si trova nella periferia londinese, vive anche Sam (Paolo Musio), lo zio taxista, che Max considera un parassita, portatore, a sua volta, di una palese infelicità. Infine, c’è Ruth (Gaja Masciale), moglie di Teddy, che arriva a scombinare definitivamente il disequilibrio di questo interno familiare a cui da tempo è stata tolta la luce.
Popolizio si interroga sul soggetto: chi è quello che ritorna a casa? Apparentemente, si tratta di Teddy, ma forse è Ruth il personaggio di cui vuole veramente parlare Pinter? Ed ecco che, nella sua messinscena, unica donna in un mondo tutto maschile, Ruth diventa il motore di ogni azione. Al punto che, invece di rifiutare o subire passivamente la delirante proposta della famiglia di Teddy – rimanere in quella casa senza il marito, prestandosi a fare la prostituta per altri clienti ma solo in comode ore serali –, accetta, con sfida. Come suggello di questo patto scellerato, al quale Teddy assiste inerme prima di ripartire per gli Stati Uniti, Popolizio sceglie, sul finale, di lanciare Ruth in una sfrenata lap dance: “È lei la vera orchestratrice, la donna potente che detta le condizioni agli uomini”.
Tutto questo avviene all’interno di un ambiente realistico: carte da parati rosso sangue, un frigorifero con i post-it attaccati, un divanetto bordeaux, sedie scompagnate, un grande specchio sulla destra, dischi e giornali sparsi per terra, a sinistra un’apertura sulla cucina, anch’essa piastrellata di rosso. Una finestra, sul fondo, di vaga reminiscenza hopperiana e una testa di mucca appesa al soffitto (al posto del più classico cervo) sono invece trattati come indizi di un possibile spaesamento. Che però non avviene mai. A causa di una “messa in lettera” del testo di Pinter che, nella versione che ne dà Popolizio, racconta “veramente” di una famiglia deragliata della periferia londinese e del ritorno a casa di uno dei suoi figli (o di un figlio e di Ruth, o solo di Ruth). E siccome, nei dialoghi, i personaggi arrivano a dirsi cose terribili, l’unico modo per pronunciare quelle battute diventa, secondo il regista, il registro grottesco.
Fin dal suo debutto nel 1965 (all’Aldwich Theatre della Royal Shakespeare Company) Homecoming attirò subito l’attenzione di critica e pubblico, ponendo Pinter al centro di quella scena londinese che fino a quel momento non ne aveva compreso il genio. Da quel momento in poi, per questi lunghi sessant’anni, gli inglesi (e non solo gli inglesi) hanno assistito a ogni interpretazione possibile del testo: astratta, psicoanalitica, sociologica, politica, simbolica, concreta, metafisica. Segno che non vi è un’unica strada. Anche la scelta del grottesco, dunque, ha la sua legittimità teorica. Che però fallisce nella fase di realizzazione. E perché?
Perché la famiglia di cui scrive Pinter non è né completamente reale né completamente immaginaria. Perché il tragico – e il comico – di Homecoming si alimentano degli spazi “bianchi” tra le battute. Spazi che spariscono quando la recitazione è troppo caricata. Se i personaggi diventano, da subito, figurine bidimensionali, soffrono automaticamente del giudizio con cui l’attore e il regista li stanno guardando. Se Max, Lenny e Joey ci appaiono come brutti, sporchi e cattivi, al punto da ricordarci Cinico Tv (programma peraltro geniale della nostra tv), lo spettatore viene privato della possibilità di ragionare sul modo sconvolgente con cui Pinter getta, sul tavolo, all’improvviso, una bomba fatta di parole e gesti conturbanti. La forza drammatica dello scrittore inglese (futuro premio Nobel) risiede, infatti, nel modo con cui, all’interno di una conversazione apparentemente normale, infarcita di banalità cortesi e luoghi comuni, piazza elementi spuri – cantilene, liste estenuanti, insulti, oscenità, deviazioni logiche: una strategia crudele per creare il clima di minaccia, che comincia con il “sabotare”, da dentro, la frase, finendo con l’incendiare tutto, i personaggi, i mobili (se ci sono), l’ambiente sociale, i discorsi retorici dei politici, i crimini familiari e quelli di Stato, la casa, la società intera. Sia chiaro, Popolizio è un attore grandioso, ma qui si discute della lettura che ha dato dell’opera. Se, con la regia di Nemico del popolo, per esempio, aveva aperto il testo di Ibsen in un modo vitale, estremamente coinvolgente per lo spettatore, con Pinter ha fatto l’operazione inversa, arrivando a chiudere, definire, giudicare, ciò che per sua natura è imprendibile, ambiguo, rendendo insomma l’operazione innocua.
Cominciando dalla scelta scenografica, che connota un ambiente in senso quasi descrittivo. Il fatto è che, per tutto il tempo, Pinter dimostra che non solo non esiste la famiglia, ma non esiste neanche la casa. E anche volendo immaginare un simulacro di casa, tutto ciò che avviene, nelle ore che trascorrono dalla notte in cui arrivano Teddy e Ruth fino al mattino in cui si celebra la distruzione assoluta di ogni vincolo matrimoniale e familiare, la casa esplode, scompare, si frantuma, sprofonda, collassa. Se non materialmente, almeno metaforicamente. È come se fosse passato un uragano e avesse distrutto tutto. Minacciato, scioccato, perturbato, lo spettatore non può certo tornare a casa tranquillo. Sempre che ci sia una casa in cui tornare. Nel frattempo, Pinter potrebbe avere fatto il suo lavoro.