Il presidente Mattarella ha fatto molto bene a stigmatizzare le manganellate della polizia contro gli studenti a Pisa e a Firenze. Ma vale la pena ricordare, poiché siamo in argomento, che la violenza poliziesca di piazza è una costante nel nostro Paese, un “basso continuo” – si potrebbe dire – che ne accompagna l’intera storia. Senza risalire a Bava Beccaris e alla sua strage di manifestanti, nel 1898, parliamo soltanto della vicenda dell’Italia postfascista e repubblicana. Si comincia molto presto, già con il governo Badoglio, che nel luglio 1943 a Bari spara su un corteo di dimostranti antifascisti. In seguito, sono noti i caroselli con le camionette e gli omicidi della Celere del ministro degli Interni, il democristiano Scelba, fino, pur in un mutato clima politico, alle uccisioni di Avola e Battipaglia tra il 1968 e il 1969. Il sottoscritto partecipò alla sua prima manifestazione, da ginnasiale, proprio scandendo lo slogan “Avola, Battipaglia, continua la battaglia”.
All’epoca non c’era un presidente della Repubblica che prendeva le parti dei manifestanti. Durante l’“autunno caldo” – anche per via della reazione del movimento studentesco milanese a un’aggressione poliziesca, che provocò la morte di un agente – avvenne piuttosto il contrario: il capo dello Stato, Saragat, fu sempre dalla parte della polizia, mai da quella dei dimostranti. Con la “strategia della tensione” immediatamente successiva, i corpi di sicurezza, oltre alla repressione di piazza, misero in atto, almeno in parte, una strategia di copertura delle bombe e degli attentati neofascisti, come pure delle incursioni squadriste davanti alle scuole che colpivano gli studenti di sinistra con catene, sbarre di ferro, coltelli. Sotto certi aspetti, sembrava di essere ritornati al clima dei primi anni Venti, quando la polizia lasciò campo libero alla violenza fascista.
La differenza – non di poco momento – era data dal fatto che l’obiettivo era cambiato: non si trattava di far posto a una nuova dittatura (anche se la minaccia del colpo di Stato fu sempre presente), quanto piuttosto di provocare i movimenti sociali del tempo perché assumessero una postura più radicale, così da rendere concreta la teoria democristiana degli “opposti estremismi”, che mirava a stabilizzare la situazione politica al centro. Cosa che puntualmente avvenne dopo l’enorme provocazione delle bombe di Piazza Fontana a Milano, con il passaggio graduale, sia pure di una minoranza di militanti, a forme di “lotta armata” ispirate ai modelli sudamericani. Così, un po’ alla volta, la grande forza democratica dei movimenti sociali di quegli anni fu svuotata e ridotta, se non altro nella rappresentazione dominante, a uno scontro violento tra fazioni uguali e contrarie.
Tutto ciò è ormai stranoto, fa parte di una coscienza del passato che i manifestanti di oggi dovrebbero avere. Se ci si domanda il perché delle manganellate ingiustificate su studenti inermi di quindici o sedici anni, la risposta è la seguente: si tratta di una “lezione”, cioè di una provocazione, tesa a riscaldare gli animi, a diffondere la stessa sfiducia nelle forme democratiche di lotta in cui una parte dei ragazzi che fummo incappò in quegli anni fatidici – segnati peraltro ancora dal mito della rivoluzione (ma questa è un’altra faccenda…). In altre parole, si può leggere un’intenzione sotto l’apparente completa gratuità della violenza poliziesca, riassumibile nel messaggio seguente: inutile che manifestiate pacificamente, tanto vi aspettano soltanto le manganellate.
Ai nostri compagni più giovani, nella situazione attuale, il segnale che da queste colonne vogliamo inviare è allora quello di “non abboccare”. Di non lasciarsi cioè scoraggiare né da un quadro politico generalmente reazionario né dalle provocazioni poliziesche, e di perseverare invece nelle lotte con calma determinazione.