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Algeria addio
Si chiamava Africa addio l’orrido film del 1966 del pessimo Gualtiero Jacopetti, un cazzotto sferrato contro il processo di decolonizzazione. La tesi? I cannibali non avrebbero mai dismesso il loro cannibalismo: dunque meglio seguitare a tenerli sotto il tacco. Ma la decolonizzazione c’è stata, ha scritto alcune pagine gloriose, per finire poi, prevalentemente, nel dominio di caste burocratico-militari autoctone, che vivono per lo più sulla rendita costituita dall’estrazione degli idrocarburi in combutta con i grandi gruppi internazionali dello sfruttamento delle risorse. È il caso dell’Algeria, nel contesto postcoloniale odierno – che peraltro assomiglia molto a una forma di neocolonialismo. Pochi giorni fa, l’Algeria ha festeggiato i sessant’anni dalla sua indipendenza, raggiunta, com’è noto, mediante una durissima lotta contro la Francia, fatta di bombe piazzate nei caffè di Algeri, da parte del Fronte di liberazione nazionale, e di torture a tutto spiano da parte dell’esercito francese, finché De Gaulle, sfidando anche il golpismo di alcuni militari, nel 1962 non arrivò a firmare gli accordi di Évian.
Che ne è di quella stagione di grandi speranze? Pressoché nulla. Negli scorsi anni, tra il 2019 e il 2020 soprattutto, un grande movimento di popolo, detto Hirak, è riuscito con grande sforzo ad allontanare dal potere il vecchio e malatissimo Bouteflika (deceduto poi nel 2021). Ma il regime, ancora una volta, si è ricompattato. Adesso il suo “uomo forte” si chiama Tebboune: la continuità del potere del partito che governa da sempre l’Algeria è assicurata. Per di più (come si può leggere in un articolo di Vittorio Bonanni del 2 marzo scorso), grazie alla guerra in Ucraina e alla maggiore vendita di gas che ne deriva, il regime si rafforza, e potrà distribuire – a una popolazione di cui la metà non supera i trent’anni, ed è costretta a emigrare per trovare lavoro – un po’ delle briciole di quello che costituisce l’arricchimento privato di pochi. Nessun cambiamento in vista, quindi.