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I funerali di Ratzinger: una piazza con le scarpette rosse
Una piazza piena, quella raccolta a Roma attorno al feretro di Ratzinger, densa e commossa, ma anche rivendicativa: una comunità per nulla piangente e rassegnata, che non congeda il proprio papa ma vuole usarlo. Che piazza era quella? Con il cuore spezzato, come ha detto, non senza malizia, il segretario particolare del papa emerito, Georg Gänswein, commentando oggi la sua reazione nei confronti della decisione di Francesco di regolamentare e limitare l’uso della celebrazione della messa in latino. Più di un aneddoto, una vera e propria dichiarazione di guerra al corso del papa in carica. Dunque una piazza conservatrice se non proprio reazionaria?
Certamente una piazza non conciliarista, per nulla in sintonia, ancora dopo sessant’anni, con il messaggio di quella straordinaria apertura capace di sintonizzare la Chiesa con il mondo. Non poche erano le scarpette rosse che ecclesiastici o semplici fedeli hanno esibito per manifestare la propria adesione a quello che riconosce come univoco messaggio del papa tedesco, che usando quelle scarpette simboleggiava il sacrificio, fino al sangue, per la propria fede. È questo oggi il segnale che sale da San Pietro. E non si tratta più di una testimonianza muta o implicita, o indiretta, ma di una parola ad alta voce. Anche perché – ed è la novità che interroga tutti noi – dal Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa inseguiva un mondo che si era messo a correre – e che di lì a qualche anno avrebbe vissuto l’esperienza di un Sessantotto anche ecclesiale, con le diverse pratiche di dottrine della liberazione – il mondo contemporaneo, con la stessa foga, marcia in una direzione del tutto opposta.
Cile, il referendum chiude la luna di miele del nuovo presidente
Se non si rischiasse il linciaggio a sinistra, si potrebbe dire che la solenne bocciatura della riforma della Costituzione, proposta in Cile dalla maggioranza che aveva eletto il nuovo presidente Boric, ricorda in non pochi passaggi quella, altrettanto squillante e attesa, che ha seppellito l’allora presidente del Consiglio Renzi, nel 2016. Certo, l’ispirazione e il retroterra culturale sono molto diversi. Marcatamente plurinazionale quella cilena, tutta protesa al riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e per la difesa dell’ambiente; intrisa di una complicata e contraddittoria alchimia istituzionale, quella voluta dal leader del Pd a suo tempo. Ma una certa cecità nel leggere i processi sociali, un illuminismo ingiustificato, e soprattutto la mancanza di una solida base di consenso che desse forma e senso allo scrollone che si pensava di dare al proprio Paese, sembrano tratti comuni.
Soprattutto congiunge le due esperienze la cruda disillusione che la sconfitta elettorale impone, mettendo un tetto basso alle ambizioni che si coltivavano. Bassissimo per Renzi, che ora trotterella nella scia di Calenda per uscire dal buio del 2% in cui era ridotto dopo la scissione dal Pd. Molto ridimensionato quello di Boric che, avendo ancora nelle orecchie l’oceanica manifestazione che aveva invaso Santiago al momento della sua elezione, pensava, forse, di poter passare all’incasso.