Pier Ferdinando Casini è considerato da taluni una “riserva della Repubblica”. Da più di quarant’anni in parlamento, fu giovane forlaniano nella Dc, poi a lungo sodale “centrista” dell’alleanza fondata da Silvio Berlusconi. Dopo essere stato in lizza anche per il Quirinale nel 2022, oggi staziona nel gruppo del Partito democratico al Senato. Certo non sospettabile di simpatie per le procure della Repubblica o per le toghe in generale, il suo giudizio di merito sulla riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Senato (separazione delle carriere dei magistrati, Alta corte, due Csm eletti col sorteggio) è lapidario: “inutile”, ma tutto sommato non troppo severo. Più significativa, invece, la sua riflessione sull’iter del provvedimento che “esce dall’esame parlamentare identico a come era entrato. Permettetemi di rilevare con stupore questo precedente, anche perché – ha osservato nel suo intervento in aula a palazzo Madama – il segnale che ne proviene è quello di una progressiva sfiducia e di un ineluttabile esautoramento delle funzioni e del ruolo del parlamento, tanto più grave trattandosi di materia costituzionale”.
È in questo “tradimento” dello spirito prudente e riflessivo dell’articolo 138 della Costituzione che si incarna l’autentico grido di battaglia della coalizione di destra-centro, la sua visione del futuro dell’Italia. Questo al di là dei proclami e delle sfilate in piazza dei dirigenti di Forza Italia con l’effigie di Silvio Berlusconi sulle bandiere, quasi a voler rivendicare il carattere di vendetta postuma contro le toghe che la nuova norma costituzionale riveste agli occhi dei suoi eredi politici. “Terzogiornale” aveva individuato a suo tempo (qui) il carattere di legislatura costituente della stagione di governo di Giorgia Meloni e dei suoi alleati. Una continua resa dei conti con i vecchi e mal tollerati equilibri dell’edificio costituzionale, che, con l’approvazione definitiva della riforma della giustizia, vive un altro atto decisivo: e i cartelli innalzati in aula al Senato dalle opposizioni non a caso accusavano la maggioranza di essere a caccia dei “pieni poteri”.
Ad ogni buon conto, una riforma costituzionale promossa direttamente dal governo e che viene licenziata senza aver subito la modifica di una sola virgola nel corso dell’iter parlamentare, come un qualsiasi decreto-legge, giustifica le proteste ricorrenti delle minoranze per la “umiliazione” delle istituzioni. Ed è lecito pensare che sia l’ennesima dimostrazione del fatto che la legge fondamentale dello Stato non ha retto alla riforma più devastante, attuata a colpi di referendum e leggi ordinarie (una peggiore dell’altra) e di cui sono responsabili quasi tutti i partiti della cosiddetta seconda Repubblica: il passaggio dalla legge elettorale proporzionale al sistema maggioritario. Un passaggio che formalmente non ha toccato la Costituzione, ma che ha prodotto, in questi ultimi decenni, costumi parlamentari improntati alla sordità reciproca tra maggioranze e opposizioni, al trionfo della propaganda e delle fiere posture da combattimento da parte di parlamentari che però, recite a parte, sono ridotti al ruolo di disciplinati spingitori di bottoni al momento di votare. Anche per questo motivo il ministro guardasigilli, Carlo Nordio, non troppo preso dalla solennità del momento, ha liquidato il dibattito parlamentare sulla riforma, con una certa levità di spirito, come “litania petulante” delle opposizioni.
C’è naturalmente il contenuto tecnico della riforma. Ci affidiamo ancora allo storico ex esponente del centro berlusconiano per evidenziarne un solo aspetto, quello della creazione di pubblici ministeri assimilabili a superpoliziotti, una sorta di casta “totalmente autoreferenziale, in prospettiva facilmente condizionabile, se non addirittura assoggettabile al potere politico”, ha sottolineato Casini, secondo il quale “in nome di una proclamata autonomia e indipendenza della funzione requirente, si consente alle procure di poter agire in modo e in maniera altamente discrezionale, senza adeguati bilanciamenti”. Paradossale per una area politica che rappresenta se stessa come il partito del garantismo e dei diritti dei cittadini a un giusto processo.
Per tornare alla politica, come spesso accade, il punto di forza delle destre sta nella storia piuttosto ambigua dei loro avversari: la separazione delle carriere, e più in generale alcune forme di ridimensionamento dell’autonomia del potere giudiziario, hanno avuto e continuano ad avere pensosi estimatori anche nel centrosinistra, com’è stato a più riprese ricordato dai banchi della maggioranza anche nel recente passaggio della riforma al Senato. Così, prima ancora di partire, la segretaria del Pd, Elly Schlein, sa che, nella battaglia del referendum confermativo, si troverà accanto agli alleati dei 5 Stelle e dell’Alleanza verdi-sinistra, ma il compito più arduo potrebbe essere mobilitare davvero il suo partito.
Ora tocca agli elettori pronunciarsi: per mostrare di non avere paura dell’esito del voto, anche da destra hanno annunciato che raccoglieranno le firme dei parlamentari per promuoverlo. Al contrario di quanto fece Matteo Renzi che scommise (e perse) tutto sulla sua mega-riforma della Costituzione, Meloni sembra intenzionata a tenere del tutto svincolato il suo destino personale dall’esito della consultazione. I suoi confidano, tuttavia, in una personalizzazione da parte degli oppositori, convinti come sono che la tenuta della popolarità della leader di destra la ponga al sicuro dal possibile effetto Renzi. Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega cercheranno di indicare il nemico nella magistratura associata, rappresentata come una sorta di rabbioso partitino di opposizione o come una casta arroccata a difesa del suo potere finora intoccabile. Qui è il vero punto di forza della coalizione di destra-centro: la consapevolezza di avere alle spalle un trentennio di incessante campagna di delegittimazione delle toghe, da parte dell’esercito mediatico berlusconiano. Tv, giornali e opinionisti da talk show hanno depositato nell’opinione pubblica un sentimento che peserà, eccome, quando si andrà alle urne, presumibilmente in primavera. Per invertire il corso della corrente, per spiegare agli elettori le ragioni del no, alle opposizioni serviranno molta determinazione e una buona dose di creatività.









