
Caldo estremo, incendi, siccità, alluvioni. A livello globale i disastri ambientali hanno causato, solo nel 2024, danni per 320 miliardi di dollari. L’anno scorso è stato il primo in cui si è superata la soglia di 1,5°C di aumento della temperatura media globale, limite chiave, stabilito a livello internazionale, per evitare conseguenze catastrofiche. Questo perché aziende e Paesi faticano ad attenersi all’Accordo sul clima di Parigi, che mirava a contenere il riscaldamento globale. Ma come si fa a costringere i responsabili a limitare le emissioni? E, soprattutto, come si identifica chi alimenta gli squilibri ambientali?
Lo strumento legale più adatto si chiama climate litigation, ossia la causa intentata da associazioni, organizzazioni, cittadine e cittadini, verso le grandi multinazionali dell’energia. Fino a pochi giorni fa, in Italia, non c’era ancora stato un caso che facesse da precedente a livello giuridico. Ma il 21 luglio scorso si sono espresse le Sezioni unite della Cassazione, nell’ambito della causa – detta “la giusta causa” – promossa da Greenpeace Italia, ReCommon e da dodici cittadine e cittadini contro Eni, Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia, respingendo l’eccezione sollevata da Eni e dagli altri convenuti secondo cui le azioni legali, legate alla crisi climatica, non rientrerebbero nella giurisdizione dei tribunali ordinari. Al contrario, una sentenza ha affermato che i giudici italiani possono pronunciarsi sui danni derivanti dal cambiamento climatico, anche se originati da società controllate all’estero, purché gli effetti si manifestino sul territorio nazionale e le decisioni vengano prese in Italia.
Si tratta di una sentenza che si presenta come un buon precedente per le future azioni legali a tema ambientale, segnando l’allineamento del nostro Paese agli ordinamenti europei più progressisti, dove cittadini e organizzazioni possono chiedere conto ai grandi inquinatori anche attraverso azioni civili che mirano a far rispettare l’Accordo di Parigi. Questa decisione della Corte è solo il primo passo; ora il tribunale di Roma potrà finalmente entrare nel merito della causa intentata, nel 2023, da Greenpeace e ReCommon valutando le responsabilità di Eni per il suo contributo alla crisi climatica. Non si mira solo a una quantificazione dei danni patrimoniali dovuti ai disastri ambientali, ma a un accertamento delle colpe dei convenuti per i danni provocati. Si chiede, poi, alla compagnia energetica di “rivedere la sua strategia industriale per ridurre le emissioni di gas climalteranti del 45% al 2030 rispetto ai livelli del 2020”, e – come si legge nel comunicato di Greeenpeace Italia – si vuole costringere il ministero dell’Economia, azionista di Eni, ad adottare una politica climatica in linea con gli accordi internazionali sul clima.
In questi anni, tuttavia, l’azienda italiana ha risposto alle accuse: dal 2019, ha intentato almeno sei procedimenti giudiziari per diffamazione contro i giornalisti: dal quotidiano “Domani” al programma televisivo “Report”, alle Ong ambientaliste. Uno di questi chiama in causa Antonio Tricarico di ReCommon (intervistato per “terzogiornale” qui, nel marzo dell’anno scorso, proprio riguardo il suo impegno su “la giusta causa”): “Si tratta chiaramente di un’intimidazione nei miei confronti, che non è piacevole e ha un impatto sul lavoro quotidiano – ha dichiarato recentemente Tricarico al “Guardian” –, ma credo che l’intimidazione sia più ampia”.
L’obiettivo, secondo numerosi osservatori, non è di ottenere un ritorno economico per colmare un danno d’immagine, quanto piuttosto quello di silenziare il dissenso delegittimando il lavoro di informazione. Secondo un’analisi dall’organizzazione di ricerca non-profit Aria, pubblicata sul “Guardian”, infatti, l’azienda ha chiesto oltre dieci milioni di euro di risarcimento nei casi noti, mentre, nelle ultime cause, non erano in ballo dei soldi, ma la volontà di impedire che le proprie attività siano accostate pubblicamente a crimini climatici. Il riconoscimento giudiziario, secondo le associazioni, mira ad avere effetti dissuasivi, a ridefinire i confini del dibattito pubblico, riducendo così la capacità di critica sociale. Una modalità che viene definita Slapp – Strategic Lawsuits Against Public Participation – 2.0, ovvero un nuovo uso del diritto come strumento per limitare la libertà di espressione e la partecipazione democratica.
Nella sera dell’8 aprile 2025, si è svolta a Bruxelles la quinta edizione dello European Slapp Contest organizzato da Case – Coalition Against Slapps in Europe –, un concorso che, con tono ironico, sensibilizza l’opinione pubblica sulle azioni intimidatorie da parte delle grandi aziende. In quest’occasione una coalizione di organizzazioni internazionali, tra cui Reporters Without Borders e Transparency International, ha assegnato proprio a Eni il poco invidiabile titolo di Slapp Addict of the Year, un riconoscimento simbolico attribuito alle compagnie che, più di tutte, hanno utilizzato i tribunali come arma per mettere a tacere critiche e opposizioni.
Secondo il database Carbon Majors, Eni è responsabile dello 0,46% delle emissioni globali cumulative dall’inizio dell’era industriale, ed è tra i principali responsabili storici delle emissioni globali di gas serra. Nonostante gli accordi internazionali e gli scenari climatici impongano una drastica riduzione dei combustibili fossili, infatti, la compagnia, quotata in borsa – ma di fatto sotto il controllo del ministero italiano dell’Economia – prevede di aumentare la propria produzione annua del 3-4% nel corso di questo decennio. E ciò mentre le campagne di comunicazione e promozione presentano Eni come sempre più green.
Il verdetto della Cassazione assume un significato che va ben oltre il singolo procedimento. Riconosce infatti la legittimità e l’urgenza delle cause climatiche in Italia, chiarendo che non costituiscono un’ingerenza nelle prerogative del legislatore o delle imprese. La suprema Corte stabilisce con nettezza che la tutela dei diritti umani fondamentali, minacciati dalla crisi climatica, è una priorità da garantire anche attraverso l’azione giudiziaria.
Con questa decisione, l’Italia si allinea ai modelli già affermatisi in Paesi come Olanda, Francia e Germania, dove il ricorso alla climate litigation è diventato uno strumento giuridico concreto per difendere il diritto alla salute, alla sicurezza e a un ambiente vivibile. Un esempio recente è quello dell’agricoltore peruviano Saúl Luciano Lliuya, che ha citato in giudizio il gigante tedesco dell’energia Rwe, sostenendo che le emissioni dell’azienda hanno contribuito al rischio di inondazioni nella sua città natale, a causa dello scioglimento dei ghiacciai. Sebbene il tribunale tedesco non abbia ritenuto Rwe responsabile in questo caso specifico, ha riconosciuto che è possibile stabilire una catena causale tra le emissioni e gli impatti dei cambiamenti climatici. Si tratta di un passo decisivo verso una giustizia effettiva per il pianeta: un riconoscimento del ruolo centrale della società civile, della responsabilità delle grandi industrie, e della necessità di un diritto capace di rispondere all’emergenza ecologica contemporanea.
Questa sentenza non incide solo sul contenzioso in corso, rappresenta anche un precedente vincolante: d’ora in avanti, i tribunali italiani potranno essere luoghi in cui si indagano le responsabilità politiche ed economiche legate alle emissioni inquinanti. L’Italia potrà così entrare a pieno titolo in un network europeo già attivo in altri Paesi. Resta da vedere come il giudice affronterà il caso della “giusta causa”, e se si arriverà finalmente a un esame nel merito di chi incide sul cambiamento climatico.