
La rivista statunitense “The Atlantic” ha ricostruito, qualche giorno fa, gli ultimi contatti fra Donald Trump e Benjamin Netanyahu prima dell’aggressione israeliana all’Iran. Azione militare e di spionaggio molto complessa, preparata nel lungo periodo, e della quale certamente gli apparati di Washington erano al corrente (e, com’è noto, pronti anche al supporto militare per bloccare i contrattacchi di Teheran che si sono visti nelle ore successive). Tuttavia, secondo l’autore del retroscena, il capo della Casa Bianca, qualche giorno prima, aveva chiamato il primo ministro israeliano per informarlo della sua convinzione che un accordo con l’Iran “fosse ancora possibile”, e spiegando che “non voleva rischiare una guerra più ampia”, opponendo alla possibilità di un attacco preventivo la preferenza per “la via diplomatica”, sia pure declinata alla maniera del presidente statunitense, sotto forma di un ultimatum condito da minacce apocalittiche.
Potrebbe essere solo una “velina” tesa a ripulire l’immagine di Trump come promotore dell’offensiva, ma non sarebbe saggio escludere l’ipotesi che Tel Aviv si sia mossa in autonomia nella decisione ultima di dare il via all’operazione, avendo la certezza che avrebbe comunque ricevuto il sostegno dell’alleato principale. Nella pubblicistica americana, del resto, non manca chi descrive il rapporto fra Israele e Stati Uniti come “la coda che muove il cane”, e non viceversa.
Se dunque perfino Trump potrebbe essere stato preso almeno parzialmente in contropiede, non può sorprendere nessuno la sensazione di impreparazione e spaesamento offerta dal governo italiano e dal suo ministro degli Esteri, Antonio Tajani, autore addirittura di una profezia (quasi alla Piero Fassino) poche ore prima dell’offensiva israeliana. “Non so se ci sarà un attacco israeliano sull’Iran, non abbiamo segnali, al di là di quello che hanno fatto gli americani, che possa esserci nell’immediato un attacco” – aveva detto il titolare della Farnesina, aggiungendo l’auspicio “che questo non accada assolutamente”, anche se, nei giorni successivi, non è apparso altrettanto determinato nel giudicare negativamente l’iniziativa di Netanyahu, come se avesse smarrito le ragioni di quell’auspicio. Anzi, di fronte alle commissioni Esteri di Camera e Senato, ha parlato di “minaccia esistenziale imminente” per Israele. Fonte delle sue informazioni il suo omologo israeliano Gideon Sa’ar, che gli ha comunicato – con ritardo evidente, viste le dichiarazioni precedenti del vice di Giorgia Meloni – che la minaccia sarebbe stata accertata da “precise informazioni d’intelligence”. Israeliane, beninteso, dal momento che solo tre mesi fa l’Annual Threat Assessment, il rapporto annuale della comunità di intelligence degli Stati Uniti sulle “minacce” (che si può leggere qui), conteneva questa categorica affermazione: “Continuiamo a ritenere che l’Iran non stia costruendo un’arma nucleare e che Khamenei non abbia riautorizzato il programma di armi nucleari che aveva sospeso nel 2003, anche se probabilmente sono aumentate le pressioni su di lui per farlo”.
Oltre i dati di fatto, però, c’è la politica. Sepolta per sempre l’Italia “mediterranea” di Sandro Pertini, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, e del teorico della “equivicinanza” Giulio Andreotti, in Italia sono stati sdoganati (e non solo a destra) la solidarietà per qualunque azione venga compiuta dal governo Netanyahu, e il tifo a prescindere per Israele. Questo accade, paradossalmente, nel periodo in cui il progetto sionista si è squadernato nella sua versione più violenta ed estremista, sotto la guida delle sue destre estreme.
Così Meloni ha fatto sapere di avere confermato al premier israeliano la sua condivisione della necessità di evitare che l’Iran riesca a impadronirsi della bomba atomica, una preoccupazione che, come si è visto, è tutta politica e ha poco riscontro nella realtà, a meno di considerare l’intelligence statunitense una struttura guidata da qualche ayatollah sbarbato. Stessa sensibilità nei confronti della versione dei fatti israeliana accomuna il partito del ministro degli Esteri e quello dell’altro vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, sempre in prima fila nell’esprimere solidarietà al governo israeliano, anche nei momenti più drammatici della pulizia etnica in Palestina, che pure hanno suscitato di recente una forte reazione verbale anche dal Quirinale.
Ma se la coalizione si compatta al seguito del nuovo azzardo bellico di Netanyahu, a livello governativo la destra italiana sembra avere il passo leggermente meno fermo, e continua a parole ad auspicare uno stop all’escalation dello scontro militare. In queste ore, fra il G7 in Canada e il vertice dei ministri degli Esteri in Europa, il primo segno di sbandamento si è visto di fronte alla proposta di Trump di incaricare nientemeno che Vladimir Putin di mediare fra Tel Aviv e Teheran. Proposta su un tema tutt’altro che marginale, respinta duramente per primo dal presidente francese, Emmanuel Macron, rispetto alla quale Roma ha invece taciuto o balbettato.
Certo, due su tre dei soci principali della maggioranza di destra-centro fanno da tempo a gara nel professare la loro vicinanza al leader statunitense. Meloni però – che deve fare i conti con i partner europei – neppure indossando una parrucca arancione per assomigliare di più al suo riferimento d’oltreoceano potrebbe arrivare a rilegittimare la Russia a livello internazionale solo perché lo propone Trump; siamo pur sempre nell’Unione europea che programma ormai, senza troppi veli di ipocrisia, un possibile confronto militare con la Russia al quale è consacrato il megapiano di riarmo, che dovrebbe anche rianimare l’industria tedesca azzoppata da guerra, sanzioni, costi energetici e rottura delle catene di fornitura lunghe. L’Italia, quindi, continuerà a navigare a vista, tenendo fermo il punto della solidarietà con Israele a ogni costo, e rivendicando il suo ruolo di “mediazione” fra Bruxelles e Washington. Ruolo valorizzato con maggiore slancio sulla stampa nazionale che a livello internazionale: al punto che risulta difficile allontanare la sensazione che si tratti, più che altro, di un’efficace scelta di narrazione, utile a occultare la prudenza, se non la totale marginalità, del governo italiano a livello internazionale.