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Pd e 5 Stelle, le due crisi che si parlano
A volte la politica procede per salti. Dopo la crisi del governo Conte, sono implose due crisi: nel Pd e nei 5 Stelle. Sono parallele, incubate da tempo, e tuttavia s’intersecano perché i due poli poggiavano le proprie prospettive su un’alleanza politico-elettorale con cui guardare alla competizione con la destra.
Il terremoto avviato da Matteo Renzi nel facilitare la formazione del governo Draghi ha costretto Pd e grillini a collocazioni innaturali in un governo di “quasi tutti” con la costrizione imposta da pandemia, scadenze del recovery plan e secche parole del presidente Mattarella sulla situazione italiana, come al solito emergenziale. Sono precipitati – in entrambe le forze politiche – latenti problemi di identità, organizzazione, prospettiva. Il Pd si è trovato improvvisamente senza testa, cioè leader, a causa di giochetti e veti tra correnti che hanno portato alle dimissioni di Zingaretti. I 5 Stelle sono entrati a loro volta in un clima da prescissione (deputati e senatori che non hanno votato il governo, i dissensi sul ruolo della piattaforma Rousseau). Giuseppe Conte è stato così costretto (sponsor Beppe Grillo) ad accettare il ruolo di leader grillino, di cui tuttavia non si conoscono ancora i programmi politici improntati comunque agli ottimi rapporti con il Pd.
Pd, saltato il tappo Zingaretti
“Sono vere dimissioni, o servono per avere una reinvestitura a furore di popolo piddino?”. “Vuole fare il candidato a sindaco di Roma?”. I commenti immediati all’annuncio che Nicola Zingaretti ha gettato la spugna dal ruolo di segretario del Pd indicano quanto sia inquinato il dibattito politico e pubblico. Il merito non conta. Se un leader dice addirittura “mi vergogno” parlando del proprio partito, non si indaga su cosa abbia portato a quel grido di dolore. Si preferisce parlare di retroscena e tattiche possibili. Un bruttissimo segno della decadenza di partiti e politica.
Zingaretti, da parte sua, per ora si limita a dire che non tornerà indietro nonostante gli appelli di sostenitori e critici finalmente uniti. Bisogna, dunque, prenderlo sul serio, anche se il detto vuole “mai dire mai” quando è in gioco qualcosa di politico. Lo statuto del Pd prevede che ora ci sia un reggente provvisorio (si vocifera che possa essere la senatrice genovese ed ex ministro Roberta Pinotti) fino al Congresso, che poi dovrà eleggere il nuovo segretario. Intanto, il Pd è allo sbando. Caos, è la parola più usata. Ennesimo segretario che salta come un tappo da quando esiste questo partito nato nel 2007: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Martina e ora Zingaretti. Per non parlare di Pds e Ds che hanno preceduto il Pd.
Pd e 5 Stelle, un destino comune
Che il Partito democratico e i grillini dovessero incontrarsi, fare governi insieme, perfino stringere un’alleanza strategica, era scritto nelle stelle fin da quel 2009 che vide la candidatura di Beppe Grillo – infine respinta – alla segreteria dello stesso Pd. Famosa la profetica sfida lanciata dal mago Piero Fassino: “Se Grillo vuole candidarsi, faccia il suo partito e vediamo quanto prende”. Fu accontentato e già nel 2013 il Movimento 5 Stelle – allora guidato dall’illuminato pensiero di Gianroberto Casaleggio, il guru della rete che aveva riadattato un originario olivettismo alla prospettiva di una democrazia diretta tramite Internet – raggiunse d’un colpo la stessa percentuale di voti faticosamente racimolata da Bersani con metodo tradizionale. Seguì un patetico confronto in streaming tra lui, in cerca di una maggioranza al Senato, e una delegazione di parlamentari grillini – ma non se ne fece nulla. Chiusura completa da parte di questi ultimi, che determinò lo scivolamento a destra dell’intero quadro politico, con la perdita della leadership da parte di Bersani a favore del rampantissimo Renzi, e il solito governo di unità nazionale con Forza Italia. E però stava “scritto lassù” che le due formazioni dovessero incontrarsi: cosa che la cronaca recente si sta incaricando di dimostrare.
Populismo a parte, infatti, i 5 Stelle sono da sempre una forza politica “liberale moderata”: il che soltanto adesso, nel pieno di una crisi interna, hanno trovato il coraggio di dichiarare. E si può ricordare il caso di un lontano antenato del grillismo, quel Guglielmo Giannini fondatore dell’Uomo qualunque, che, dopo la dissoluzione del suo movimento, terminò la carriera politica da liberale. Certo, di mezzo c’è stato tanto livore contro l’Unione europea (anche giustificato, visto il Patto di stabilità con austerità relativa), e, agli inizi del grillismo, addirittura la “decrescita felice” (una soluzione ecologista radicale che vorrebbe tagliare i ponti con la tematica del “nuovo modello di sviluppo”); ma in fin dei conti – anche volendo prendere come autenticamente di sinistra la proposta, poi realizzata, di un “reddito di cittadinanza” – i 5 Stelle, nati dall’unione di un manager con un comico, non si sono mai sognati di muovere la minima critica al capitalismo in quanto tale.
Epinay all’italiana per rifare la sinistra?
Bersani e D’Alema hanno avuto ruoli di primo piano nelle forze venute a sinistra dopo il 1989. Il primo è stato segretario del Pd, il secondo segretario del Pds e dei Ds prima di lasciare l’incarico a Veltroni e scegliere l’avventura di diventare premier. Hanno fallito entrambi prima della loro rottura con la segreteria di Renzi: hanno dovuto separarsi dal Pd per formare Articolo uno, un piccolo movimento. Questa traiettoria da sconfitti li rende poco "spendibili" nell’attualità politica: hanno fatto il loro tempo e hanno avuto le loro chance. Si può ascoltare quello che dicono come "consigli", "memoria", analisi.
Eppure – bisogna ammetterlo – da un po' di tempo ripetono un ritornello che è difficile non condividere. Abbandonata l’illusione di formare un unico partito a sinistra del Pd (la triste parabola di Liberi e uguali), insistono nel chiedere una "novità", che sarebbe poi lo scioglimento del Pd ritenendo fallita l’operazione politico-culturale di unificazione Margherita-Ds. A questo dovrebbe seguire un processo di aggregazione di forze, movimenti, associazionismo per dare vita a una organizzazione nuova nelle sue "forme": non un classico partito, bensì una confederazione di forze che innovi il modo di stare insieme e produrre decisioni. Sarebbe il "fatto nuovo" che Bersani invoca con più forza di D’Alema grazie alla sua simpatica vocazione per le metafore (ricordate la mucca in corridoio per segnalare l’avanzata della destra?).
Pandemia e caso italiano, pungolare Draghi: questo è il problema
Modificando in parte un antico detto di Ennio Flaiano, si potrebbe dire che la situazione italiana è “grave” e “seria” al tempo stesso. Anzi, si potrebbe, aggiungere “tragica”. Pandemia, crisi economica, gap di arretratezze strutturali rispetto ad altri Paesi europei, fanno sempre dell’Italia un caso a parte.
Lo è anche nella forma di governo guidata ora da Mario Draghi. Non c’è altra realtà della Comunità europea dove sia stato necessario affidare la premiership a un “tecnico”, per giunta banchiere di alto profilo, e sia stato necessario un governo di “salvezza nazionale” (parole quest’ultime del presidente Sergio Mattarella”). È stato necessario qui da noi per la fisiologia istituzionale (la debolezza degli esecutivi) e perché fasi emergenziali sono state affrontate solo o nell’immediato dopoguerra o di fonte al terrorismo, o infine di fronte a scadenze economiche (entrata nell’euro, spread e via dicendo). Il civile rapporto maggioranza-opposizione e quello che si chiama “interesse nazionale” non fanno parte della nostra tradizione (fecero eccezione De Gasperi, Nenni, Togliatti e per un periodo Moro, Berlinguer). Basta dare uno sguardo a storia e regole della Gran Bretagna o a quelle della Germania degli ultimi anni di governi di unità nazionale tra Popolari e Socialdemocratici per rendersi conto delle diversità.