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Il M5S è spaccato, punto interrogativo sul Pd

"Cosa resterà di questi anni Ottanta", diceva una vecchia canzone. Cosa resterà del Movimento 5 stelle è domanda d'attualità sulla quale è d'obbligo astenersi da troppe certezze e limitarsi a fare ipotesi, più che previsioni. Nell'ultimo anno e mezzo, pagando pegno (dopo la crisi del Papeete scatenata da Matteo Salvini) alla formidabile macchina di propaganda del centrodestra e alle sue debolezze strutturali, la creatura politica tenuta a battesimo in un'altra era geologica da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio è entrata a far parte di un abbozzo di coalizione politica. Coalizione che comprenderebbe il Partito democratico e le truppe sciolte di Liberi e Uguali. Ma il blitz di Matteo Renzi, che (alla vigilia di una importante tornata di nomine pubbliche ma soprattutto della stagione della gestione del Recovery Plan) ha disarcionato Giuseppe Conte anche per impedire il consolidamento di questo asse politico, ha mostrato tutta la fragilità dell'operazione politica. Sui due lati: il primo è quello del Pd, che per una parte significativa e forse maggioritaria dei suoi gruppi parlamentari e dei gruppi dirigenti diffusi preferisce altre compagnie; il secondo quello del M5S, che si è spaccato, stavolta non con la consueta uscita di poche unità di "dissidenti" e per la prima volta corre il rischio reale della nascita di un gruppo scissionistico alternativo con qualche figura nota al suo interno. Il corpaccione dei gruppi parlamentari e degli iscritti non è stato in grado di digerire la sconfitta sulla trincea scavata a difesa del Conte 2 e l'inversione a U dettata dai vertici con l'adesione al governo presieduto da Mario Draghi, uno dei bersagli storici della polemica di Grillo e soci.

Una netta sensazione di peggioramento

La maggioranza giallo-rossa era la soluzione più avanzata che il parlamento uscito dalle elezioni del 2018 potesse offrire. Avrebbe dovuto essere adottata fin da subito e durare l’intera legislatura. Soltanto l’inconsistenza di un partito come il Pd – basato sull’elezione a sfondo plebiscitario del proprio leader, un meccanismo che ha prodotto la particolare perversione renziana –, regalando il governo alla Lega, aveva reso possibile l’obbrobrio di una maggioranza, in quel momento dichiaratamente sovranista-populista, tra i 5 Stelle e la Lega. Ma che questi partiti non potessero intendersi, anche perché espressione di realtà territoriali diverse, tra loro profondamente diseguali (la Lega è impiantata al Nord, pur con la “correzione” nazionalista salviniana, mentre la rabbia meridionale si è espressa soprattutto nel voto grillino), era piuttosto evidente; l’errore di Salvini nell’estate del 2019 ha fatto il resto. La nascita del Conte 2 restava comunque appesa all’esigenza di visibilità e sopravvivenza politica di Renzi. Qualcuno aveva creduto che i pretesti messi in campo per colpire il governo giallo-rosso (la questione del Mes, la faccenda del Recovery Plan scritto male nella prima stesura, il nodo della “prescrizione”, e così via) si dissolvessero di fronte alla possibilità di ottenere un ministero in più. Così non è stato, perché Renzi ha ben chiaro che alle prossime elezioni dovrà giocarsi tutto, e che per non morire deve assolutamente fare in modo di ereditare i voti di un moribondo Berlusconi (anche poi presentandosi, se sarà il caso, in un’unica lista con Forza Italia). Il governo tecnico-politico è l’ombrello migliore sotto il quale tessere una tela neocentrista, mentre mettere fuori dalla luce dei riflettori un competitore come Conte, anche lui orientato a prendere voti nello stesso bacino elettorale, neppure era da considerare un obiettivo trascurabile.