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Le (impossibili) dimissioni di Enrico Letta. Un appello
In questi giorni sta succedendo l’inverosimile – ma sappiamo bene quale sia l’origine dell’enorme pasticcio che ne è venuto fuori. Esso non è che la conseguenza di un’unica scelta sbagliata iniziale, quella di avere lasciato cadere, da parte del Pd, il rapporto preferenziale, faticosamente costruito negli anni, con il Movimento 5 Stelle. Ora non è più il momento delle balle (di cui sono specialisti i due comici della commedia all’italiana, Carlo Calenda e Matteo Renzi). Con il modo di presentazione alle elezioni in cui il Pd si sta cacciando – pur con il positivo apporto di Europa verde e Sinistra italiana, e, a quanto pare, di +Europa – il rischio non è quello di una semplice vittoria del cartello delle destre ma di una débâcle di proporzioni immani, in cui persino la Costituzione sarebbe a rischio (si ricordi che, con una maggioranza dei due terzi dei parlamentari, è possibile cambiarla senza passare per un referendum). È rimasta solo una settimana per ricucire con i 5 Stelle di Conte e arrivare a un patto elettorale.
Il responsabile principale di quanto accaduto è Enrico Letta. È anzitutto lui, in quanto segretario, che si è fatto abbindolare nel tira e molla con Calenda, e perciò dovrebbe farsi da parte. Non si tratterebbe di vere e proprie dimissioni – perché un partito non potrebbe affrontare le elezioni con un segretario dimissionario –, ma occorrerebbe, da parte di Letta, il riconoscimento di essersi infilato nell’impasse, lasciando ai suoi due vice, Giuseppe Provenzano e Irene Tinagli, il difficile compito di trattare con Conte e i suoi.
I buchi nell’acqua di Letta
Ma il Pd è riformabile? Il quesito è probabile che inizi a porselo lo stesso segretario Enrico Letta. Lui ci mette passione, cultura, visione europea e buona volontà che non bastano. Il “soggetto” è quello che è, sedimentato in quasi un quindicennio di correnti e correntine costrette a convivere in un amalgama mal riuscito (lo ammise D’Alema), dove – a parte episodi ai tempi dell’Ulivo vincente di Romano Prodi – la strada è stata sempre in salita (come dimostrano gli otto segretari prima di Letta). L’illusione iniziale, un vero peccato originale, fu far convivere con la bacchetta magica “sinistra” e “centro” in un unico partito, per giunta sul modello statunitense e senza nessun radicamento in questa versione nella storia della politica italiana.
Letta annaspa già in queste prime settimane. Come vicesegretari ha scelto Irene Tinagli e Giuseppe Provenzano, la prima neoliberale ed ex collaboratrice di Mario Monti, il secondo un po’ collocato a sinistra: il bilancino tra opzioni diverse. Intanto, ha orientato su ius soli e voto ai sedicenni la stella cometa di nuovi diritti (benissimo il primo, discutibile il secondo), che tuttavia non incrociano l’agenda politica fatta di pandemia e crisi economica potenzialmente catastrofica quando finirà il blocco dei licenziamenti. Poi ha provato a mettere le donne in pole position alla guida dei gruppi parlamentari scatenando la battaglia tra correnti. Debora Serracchiani (Camera) e Simona Malpezzi (Senato) sono frutto di fragili mediazioni. Le donne ora hanno un ruolo di rilievo al prezzo di condizionamenti reciproci e non di un reale rinnovamento di metodo e convivenza nello stesso partito. Dentro il Pd ci sono ancora tanti cavalli di Troia renziani pronti a intralciare Letta sulle scelte di fondo.