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Tik Tok e il voto del 25 settembre

Uscendo dalla stazione di Napoli, ci siamo imbattuti in una vetrina della Feltrinelli in cui ogni libro era legato a un evento su Tik Tok. Libri di spessore che vengono raccontati, presentati, venduti, con il linguaggio sincopato del social più amato dagli adolescenti. Cosa può simboleggiare, più concisamente di questa vetrina, il cambio antropologico, prima ancora che politico, che sta trasformando il nostro Paese sulla scia di quanto già accaduto nei principali Stati occidentali? E cosa può annunciare più spettacolarmente come i percorsi del voto e dei consensi siano sempre più occasionali, emotivi, momentanei? Si vota come si legge: su Tik Tok. Non è una consolazione né una giustificazione preventiva, è la conferma che l’uomo è ciò che mangia: dunque, quanto accade è sempre conseguenza dei processi di trasformazione sociale.

Come diceva Alessandro Magno, per spingere avanti i suoi generali che avrebbero preferito tornare a casa, “non esiste più la Macedonia che abbiamo lasciato e potremo essere ancora re solo se andiamo oltre l’Hindu Kush”. Per cui, una testata come “terzogiornale”, che si propone appunto come luogo di una inconsueta e forse anche eccentrica meditazione – lenta e analitica dei processi più profondi, anziché delle evidenze più abbaglianti –, non darà indicazione di voto specifico ma chiamerà i suoi lettori a votare, comunque, per dare alla sinistra la possibilità di cominciare a pensare con più forza e determinazione dopo il voto: whatever it takes, costi quel che costi, come amava dire il presidente del Consiglio uscente.

Un voto né utile né dilettevole?

È stata la settimana del voto utile. L’arma totale, che il segretario del Pd aveva in serbo per la sua campagna elettorale, è infine stata attivata. Se la destra prende il 70 % dei consensi – ammonisce Letta – potrà cambiare a sua immagine la Costituzione. Dobbiamo fare muro, solo un voto al Pd nei collegi uninominali ridurrebbe l’affermazione della Meloni.

Non sembra che la mossa abbia prodotto un risultato. I commenti degli opinionisti, sia dei quotidiani sia dei talk show, sono stati generalmente molto scettici, se non proprio critici. Il “Corriere”, pur esibendo una sua diffidenza per l’annunciata affermazione del centrodestra, ha stigmatizzato la strategia dei democratici. Folli e Polito hanno insistito sulla contraddittorietà del ritornello di Letta, dopo le ultime capriole con Conte, Calenda e infine Fratoianni. “Repubblica” tiene il gioco per ragion di Stato, ma cerca di spostare il baricentro della polemica sui contenuti economici, usando Cottarelli come fustigatore della flat tax. I sondaggi registrano puntualmente questa dinamica, dando il Pd in logoramento, addirittura sotto la fatidica soglia del 20%, mentre Conte e Calenda sembrano relativamente in ripresa, pur rimanendo comunque sotto i rispettivi tetti annunciati.

I cattolici alle elezioni

Come voteranno i cattolici? E soprattutto si può, nel 2022, considerare il mondo cattolico come un blocco unico? Tanto tempo fa la risposta a...

Votare per i grillini non è un tabù

Pochi ricordano, o forse pochi sanno, che le origini del Movimento 5 Stelle stanno nel partitino personale di Antonio Di Pietro, di per sé già parecchio qualunquista (nonostante le alleanze di centrosinistra di cui spesso faceva parte), con quel suo giustizialismo più da poliziotto che da magistrato. Uno scarto di lavorazione di Tangentopoli. Bene, Gianroberto Casaleggio, con la sua azienda di comunicazione, si occupava della propaganda del dipietrismo, il cui partito si chiamava Italia dei valori (uno dei nomi più strampalati, e ancora più brutto di 5 Stelle, che mai sia stato trovato). Anche Grillo aveva un occhio di riguardo per Di Pietro. Alla fine, però, su che cosa ruppero? Sulla “politica delle alleanze”. Casaleggio e Grillo sostenevano che non bisognasse mai fare alleanze – e in effetti, con il senno di poi, si deve ammettere che avevano visto giusto, perché per prendere voti indifferentemente da destra e da sinistra, bisognava fare come i 5 Stelle che, nelle elezioni del 2013 e in quelle del 2018, arrivarono a far saltare il banco con la loro “antipolitica”.

Adesso – dopo mille pasticci, giravolte e scissioni – i 5 Stelle sono ritornati, in un certo senso, alla casella di partenza (anche grazie a Letta che ha chiuso a una possibile coalizione con loro). Si presentano da soli, distinti sia dal cartello delle destre sia dal piccolo centrosinistra riunito intorno al Pd; ma lo fanno stavolta dicendosi “progressisti”, una parola che un tempo non avrebbero usato. Che cosa sono i grillini a guida Conte? Una formazione di centrosinistra sui generis – si potrebbe rispondere –, con venature socialdemocratiche (la difesa del cosiddetto reddito di cittadinanza, la proposta del salario minimo), che non intenderebbe certo porre in questione il capitalismo (ci mancherebbe!), e neppure imprimere alla società una decisa svolta ecologista, ma che cerca di recuperare voti a sinistra dopo averne perso per strada una grande quantità a destra.

Giorgia Meloni premier? Quale femminismo?

Giorgia Meloni potrebbe diventare la prima donna premier nella storia dell’Italia repubblicana. Altre figure femminili hanno ricoperto e ricoprono rilevanti cariche; da Nilde Iotti...

Meloni in doppiopetto (ovvero da Giorgio a Giorgia)

Nessun riferimento all’abbigliamento. Siamo quanto mai sul terreno politico: forse potrà sfuggire ai più giovani ­– ma gli altri dovrebbero ricordare il metodo usato, a suo tempo, da Giorgio Almirante per tentare di sdoganare il Movimento sociale, ricettacolo e “ombrello protettivo” (così disse Rauti) degli stragisti di Ordine nuovo. Si era nel 1972: allora i militanti del Movimento sociale, esplicitamente indicato da Meloni come il proprio punto di riferimento ideologico, tanto da conservare nel simbolo la fiamma tricolore – simbolo totalmente anticostituzionale –, andavano su e giù nelle piazze; e Ignazio La Russa, oggi consigliere esperto soprattutto in fatto di nomine, menava le mani che era un piacere. Nico Azzi, quello che si fece vedere in treno con “Lotta continua” sotto il braccio, prima di mettere a posto l’ordigno che gli scoppiò in mano, era un tesserato dell’Msi e via dicendo, si potrebbe proseguire a lungo. Ebbene, in quel contesto, Almirante si fece doppiogiochista, vestendo il “doppiopetto” di giorno, dunque perbenismo tutto sicurezza e tradizione, e continuando a gestire i camerati di notte. Era chiamata appunto la “politica del doppiopetto”.

Gli fruttò un botto elettorale che mise in crisi la Dc, cosa difficile allora; poi il successo calò, facendo rientrare nei ranghi l’Msi: gli spiegarono che c’era posto anche per loro ma non in quel modo, e anche la P2 fece la sua parte accogliendoli fraternamente nella propria casa. Giorgia Meloni non ha fatto che apprendere dal suo padrino politico: non rinuncia al simbolo, rivendica la sua origine, si tiene una classe dirigente spesso inquietante (troppe inchieste le sono cadute addosso), ma al tempo stesso ha cominciato a frequentare i salotti buoni, ed è arrivata piano piano sul palco di Rimini.