Qualche giorno fa il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, a cui non fa difetto la chiarezza, parlando nella trasmissione televisiva “Otto e mezzo” del referendum primaverile sulla separazione delle carriere, ha detto che sarà molto importante saper spiegare la posta in gioco, uscendo da un linguaggio burocratico e schematico. Per portare i cittadini alle urne – ha detto – non serve scrivere trattati, entrare nel “giuridichese”: la prova sta nel far capire che la questione ci riguarda direttamente, illustrando casi e circostanze che potrebbero verificarsi nel caso maledettismo della conferma da parte della consultazione elettorale di questa legge costituzionale (di cui vi abbiamo già detto il dettaglio qui, ricordando che il testo del governo è uscito identico a com’è entrato nelle aule parlamentari, intoccato per ben quattro passaggi).
La questione accennata da Gratteri è assai importante al tempo della politica ridotta a pratica elitaria e sempre meno attuata sul terreno della mobilitazione e del coinvolgimento della società – anche grazie al devastante abbandono del sistema elettorale proporzionale e al passaggio a quello maggioritario di fronte al quale, come scrive Paolo Barbieri su questo giornale, “non ha retto la legge fondamentale dello Stato”. In buona sostanza, non basterà evocare le grandi questioni giuridiche, il raffinato dibattito alla Costituente di spiriti democratici profondamente mossi dal bisogno di costruire un’architettura istituzionale antiautoritaria – Dossetti, Vassalli, Moro. Non basterà neanche evocare lo spettro di Licio Gelli: perché se è vero che questa controriforma è stata scritta già nei lontani anni Settanta, ispirata da un potere massonico-criminale e fascista, è pure necessario considerare che questo potrebbe non essere sufficiente a parlare a platee a cui il nome di Gelli e della P2 non suggerisce la sequenza dei loro orribili tentativi di frantumare la Costituzione del 1948.
Occorre saper essere persuasivi, insomma, prospettando cosa potrebbe accadere a ciascuno di noi se ci trovassimo di fronte a un pubblico ministero preoccupato solo di insistere nell’accusa e di prender le parti solo della polizia, piuttosto che di capire se effettivamente ci siano le basi per sostenerla, quell’accusa; oppure, sapendo spiegare con toni vibranti e incalzanti che un pm potrebbe riservarci un trattamento molto meno comprensivo di quello riservato, nelle stesse circostanze, a un amico di un potente. Perché la separazione delle carriere dei magistrati, la rottura dell’unicità della mentalità del magistrato, altro non è che il primo, grande avvio del ridisegno in senso autoritario dello Stato, modellato attorno al potere e alle sue esigenze di perseguire e reprimere chi lo contesta o chi è ai margini, lasciando una zona franca di impunità per le aree compiacenti. Un pm sganciato dalla giurisdizione sarà attirato fisiologicamente nella sfera dell’esecutivo, e perderà fatalmente la sua indipendenza, con tutte le conseguenze per le vite di tutte e tutti noi.
La strada dunque non è semplice, complicata da anni di ruggine nel rapporto politica-società, e dall’avvento di un populismo fascistoide che gode tra slogan d’assalto e messaggi di brutale semplificazione, inventati per attirare facili simpatie al grido di “basta con le vessazioni dei magistrati!”, oppure: “pensate a cosa hanno fatto al mio povero papà!”, detto senza apparente sentimento di imbarazzo da Marina Berlusconi, che ha così richiamato il fascino animalesco che il padre ha saputo esercitare su vasti settori della società, quasi possedendoli con le sue televisioni. È da più di trent’anni che la campagna di delegittimazione della magistratura è così pressante e persuasiva che adesso chiedere sostegno all’autonomia e alla indipendenza di un potere fondamentale dello Stato sembra davvero una missione impossibile. Si vocifera, tra l’altro, che gli acuti e servizievoli vertici della Rai abbiano in animo di programmare, proprio per la primavera, in coincidenza con il referendum, la messa in onda dello sceneggiato di Marco Bellocchio sugli abusi nei confronti di Enzo Tortora: sarebbe la ciliegina su una torta che la destra sta assaporando con inquietante voluttà.
Intanto, è già stato costituito da settimane, ufficialmente lo scorso 30 ottobre, il comitato per il no, battezzato “Comitato a difesa della Costituzione”, e ha come presidente onorario il costituzionalista Enrico Grosso, docente di diritto all’Università di Torino; mentre già da prima dell’estate, quando erano già molto chiare le intenzioni di palazzo Chigi di tirar dritto con la guerra alla magistratura, anche l’Associazione nazionale magistrati ha il suo comitato referendario per il no, di cui viene difesa gelosamente l’autonomia e la natura non politica, in modo fin troppo insistente, evidentemente nel timore di evitare le facili e grossolane accuse ai “magistrati che fanno politica” – per quanto l’argomento sarà comunque usato senza tante cortesie dalla destra. Per quanto riguarda i maggiori partiti di centrosinistra, invece, già si sente molto la fibrillazione in casa Pd, dove molti amano la separazione delle carriere – la ama perfino Goffredo Bettini –, e una certa aria di competizione tra i partiti di Elly Schlein e Giuseppe Conte, che non sono riusciti neanche a tenere una conferenza stampa unitaria nell’immediatezza del voto definitivo. Nulla di nuovo, ma se spalmato sulla campagna referendaria, insieme a tutte le altre insidie, non c’è di che lasciare troppo spazio all’ottimismo.









