Milei ha vinto con il 40,8% dei voti le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato. Ha avuto la meglio, pur di stretta misura, anche nella provincia di Buenos Aires, dove, meno di due mesi fa, il peronismo lo aveva sonoramente battuto con più di quattordici punti di distacco (vedi qui). Un risultato di grande rilievo – in linea del resto con il successo che la destra ha incassato in province come Córdoba, Mendoza, Entre Ríos e Santa Fe –, dato che la provincia della capitale rappresenta quasi il 40% del corpo elettorale, e una rimonta sembrava impensabile. Con i risultati di domenica scorsa, La Libertad avanza, in alleanza con il Pro, il partito dell’ex presidente Mauricio Macri, avrà novantatré deputati invece di trentasette, mentre al Senato passa da sette seggi a venti. Alla Camera, i peronisti di Fuerza Patria perdono quattro deputati, ma rimangono la forza politica più forte, con novantasette seggi, mentre al Senato perdono sei senatori e ne conservano ventotto.
Nessun sondaggio aveva previsto un esito simile, anche se l’estrema destra era data in vantaggio e, nella Libertad avanza, si pensava a un risultato di qualcosa superiore al 30%. Alla fine, ha funzionato la scelta di Milei di agitare lo spettro di un ritorno del peronismo nella sua versione più odiata, quella del kirchnerismo, e l’aver fatto diventare un’elezione di medio termine, nonché il primo vero appuntamento elettorale per la destra al governo, un referendum su di lui. Ha vinto a man bassa, con la soddisfazione, inoltre, che in molte province la seconda forza non è Fuerza Patria, la compagine in cui erano confluite le varie anime del giustizialismo, “ma le maggioranze provinciali, forze razionali che sanno che uno più uno dà due” – ha sottolineato Milei, nel discorso del trionfo, invitando i governatori al dialogo. “Oggi il popolo ha deciso di lasciarsi alle spalle cent’anni di decadenza, oggi inizia la costruzione della grande Argentina” – ha detto il presidente in giacca e cravatta, dismesso il bomber da combattimento con il quale suole farsi vedere.
Sta di fatto che gran parte degli argentini ha scelto lui piuttosto che un ritorno del peronismo, che, nell’immaginario di molti, non ha smesso di rappresentare corruzione e inflazione alle stelle. Tanto più che il discorso di Fuerza Patria si è limitato a criticare Milei su quanto di sbagliato ha fatto, ma è stato ben lungi dal proporre una soluzione alternativa e credibile alla crisi economica, svincolata da un ritorno all’assistenzialismo e all’inflazione, con cui i peronisti vengono identificati nel Paese.
Con il suo drastico piano di aggiustamento, Milei ha portato l’inflazione mensile dal 25% di quando ha assunto il governo, nel dicembre 2023, a circa il 2% attuale. Durante il suo governo, il tasso di povertà è sceso di dieci punti fino alla prima metà di quest’anno, e il Paese ha registrato un surplus di bilancio senza precedenti in più di un decennio. Tutto ciò ha comportato grandi sacrifici per la società, con il reddito reale medio di molti argentini – dai lavoratori del settore pubblico ai pensionati – che è sceso, e con il tasso di povertà che ha raggiunto il 31,6% (ovvero 14,5 milioni di persone) a metà anno. E nonostante le accuse di macelleria sociale mosse dall’opposizione, le numerose manifestazioni dei pensionati, dei lavoratori della sanità e degli universitari, nonostante alcuni scioperi generali, la risposta sociale non si è trasformata in rivolta.
Poco hanno pesato anche gli scandali, che hanno colpito un presidente che aveva promesso la fine alla corruzione della “casta” politica, i cui privilegi aveva detto di voler far cessare. Del ruolo da lui avuto, in febbraio, nella promozione della criptovaluta, il cui valore è precipitato in pochi minuti dopo aver consentito lauti guadagni ai suoi ideatori politicamente vicini a Milei, deciderà la giustizia americana che attualmente sta indagando, e che potrebbe portare alla luce fatti che potrebbero nuocergli. Poi la vicenda che ha coinvolto la sorella Karina, segretaria generale della presidenza, che alcuni audio accusano di avere ricevuto tangenti dall’agenzia nazionale per la disabilità. E il caso di José Luis Espert che è stato costretto a rinunciare a candidarsi, quando sono emersi i suoi legami con un uomo di affari accusato di traffico di droga negli Stati Uniti.
Ma quello che ha fatto pendere il piatto della bilancia a favore del governo, è stato il forte sostegno di Trump alla sua politica, attraverso il salvataggio finanziario che sta sostenendo la moneta argentina, il peso, con una linea di swap, uno scambio di duemila miliardi e un prestito privato di uguale ammontare, per quanto, almeno finora, di questa boccata di ossigeno proveniente dal privato poco o nulla si sia visto. Un aiuto che, qualche giorno prima delle elezioni, Trump aveva vincolato al successo elettorale dell’estrema destra. “Se non vince, ce ne andiamo” – aveva dichiarato. Perché anche Trump non poteva accettare di continuare a dare soldi senza sapere come saranno ripagati, una scelta che gli aveva attirato critiche dai democratici e persino da settori a lui più vicini, poco propensi a scommettere con i soldi dei contribuenti americani. Questo in una situazione complessiva talmente incerta da innervosire i mercati, affondare il peso – dato che molti argentini, in vista del peggio, hanno convertito montagne di pesos in dollari, generando instabilità valutaria – e sparare alle stelle il “rischio Paese”, ovvero quello di perdite dovute all’instabilità politica, alle fluttuazioni valutarie, alle crisi economiche.
In virtù dell’affinità ideologica con Milei, Trump alla fine aveva ordinato un aiuto finanziario unico per alleviare i crescenti problemi politici ed economici dell’amico argentino, per consentire che il suo esperimento ultra-neoliberista non avesse a naufragare. Non a caso, visto che il subcontinente si avvia verso un periodo di elezioni presidenziali (in Cile, Brasile e Colombia) e una sconfitta della destra argentina avrebbe potuto nuocere ai candidati che Trump deciderà di appoggiare nel suo tentativo di contrastare la forte presenza della Cina in Sudamerica.
Questo ha fatto sì che il suo segretario al Tesoro, Scott Bessent, abbia pompato circa un miliardo di dollari per acquistare pesos, e impedire così un’ulteriore svalutazione e una conseguente impennata dell’inflazione. Almeno fino alle elezioni di domenica, perché poi si vedrà se svalutare o meno, dato che il salvataggio americano potrebbe non essere sufficiente a risolvere la vulnerabilità del sistema monetario argentino e la dipendenza del Paese dal dollaro. Perché, se da un lato è certo che l’Argentina rappresenta un interesse economico, strategico e geopolitico – con il gas naturale, le riserve di minerali, il litio e le terre rare –, dall’altro, se il Paese non si rialza e se Milei non vince la scommessa nei prossimi due anni di mandato, gli Stati Uniti non potranno continuare a sostenerlo all’infinito.
A Milei spetta ora il compito urgente di riassettare il suo programma economico, affrancandolo dall’ossigeno nordamericano che al momento lo tiene in vita. Il risultato di domenica avrà l’effetto di calmare i mercati – e non a caso la borsa argentina ha stappato champagne, con le azioni in crescita del 20%, mentre a Wall Street hanno raggiunto un aumento del 50%, con il dollaro in caduta – assicurandoli che la strada delle riforme delle pensioni, della fiscalità e del lavoro che l’anarco-liberista ha in progetto, con questo risultato elettorale, potranno andare avanti. La domanda a cui queste elezioni dovevano dare una risposta era se Milei sarebbe riuscito a ottenere un terzo del sostegno alla Camera, necessario per sostenere i suoi veti alle leggi approvate che lui rifiuta. La risposta è stata chiara, anzi è andata oltre ogni più rosea previsione. E ci consegna un Milei che il passaggio elettorale potrebbe avere cambiato, un Milei più disposto a colloquiare e a tessere accordi nei due anni a venire, lasciandosi alle spalle le importanti sconfitte legislative degli ultimi mesi, dopo avere posto il veto a leggi che riteneva contrarie al suo piano di austerità e avere affrontato sia il Congresso sia i governatori provinciali. Questo è quanto più volte gli ha raccomandato, del resto, il Fondo monetario internazionale che, nei mesi scorsi, gli è andato in soccorso concedendogli venti miliardi di dollari in prestito – e questo è ciò che vuole anche Trump. Pur non disponendo neanche questa volta di una propria maggioranza, dovrà mettere a punto la sua squadra di governo, procedendo ad alcune sostituzioni di ministri che dovranno lasciare perché eletti deputati, risolvendo anche gli attriti tra la sorella Karina e il suo maggiore consigliere, Santiago Caputo.
Sull’altro fronte, l’insuccesso di Fuerza Patria, in cui sono confluiti i seguaci di Cristina Fernández de Kirchner, del governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof, e dell’ex ministro ed ex candidato Sergio Massa, farà riaccendere il conflitto nel peronismo. Tra i perdenti, c’è in primo luogo il peronismo di Buenos Aires, che in un mese e mezzo è passato da una vittoria travolgente e inaspettata a una sconfitta altrettanto sorprendente. In particolare Axel Kicillof, possibile candidato unitario alle presidenziali del 2027 fino a prima delle elezioni di domenica scorsa, non è riuscito a ripetere il risultato di settembre, mentre il peronismo in quanto tale non ha saputo mettere assieme un’alternativa elettoralmente vincente, incapace com’è di offrire un’idea diversa di cambiamento e di futuro.









