Dicevamo in un precedente articolo (vedi qui) che, nella crisi francese, a ritornare non è un generico conflitto sociale (come quello dei “gilet gialli” di qualche anno fa), ma delle vere e proprie lotte di classe secondo un discrimine chiaro: quello imposto da un fronte sindacale e politico, cioè anche da una sinistra politica considerata nel suo insieme, che si batte perché sia ritirata la normativa sulle pensioni (approvata due anni fa senza un voto dell’Assemblea nazionale, grazie a un codicillo costituzionale che consente al governo di deliberare in autonomia) e perché sia introdotta un’imposta sulle grandi ricchezze (la cosiddetta tassa Zucman). Macron e il suo tirapiedi Lecornu, nominato premier per la seconda volta, sono stati costretti ora a un compromesso. Nell’aula parlamentare Lecornu ha dovuto prendere almeno due impegni. Il primo, a non ricorrere più, in mancanza di una maggioranza parlamentare, al codicillo di cui sopra: ciò significa che il budget per il 2026 dovrà essere discusso e votato dai parlamentari (a differenza di quanto accadde l’anno scorso con Bayrou). Il secondo impegno, decisivo per evitare la sfiducia da parte del Partito socialista, che l’aveva posto come conditio sine qua non, è quello a una sospensione della legge sulle pensioni.
Resta fuori dal compromesso la cosa più importante, cioè la questione della tassazione. Se il deficit francese dovrà prossimamente restare al 5% (attualmente è al 5,4%), ciò non potrà avvenire soltanto con un taglio delle spese (quali poi?) ma soprattutto con un aumento delle entrate mediante un’imposizione sui super-ricchi. Ci sono dunque ancora dei passaggi da fare, nell’assemblea parlamentare, perché qualcosa di questo possa realizzarsi, sebbene l’obiettivo della tassa Zucman sia al momento fuori portata.
È vero, i socialisti ne avevano fatto una bandiera nelle scorse settimane, ma poi hanno ripiegato sull’unica condizione di una sospensione (se non altro) della riforma delle pensioni. La sospensione ha ovviamente un costo, e si tratterà ora di battersi in parlamento perché ci sia una legge di Bilancio con tratti di equità. I socialisti sono quindi decisivi, con la loro non-sfiducia (tra loro, solo meno di dieci deputati su una settantina hanno votato la mozione “di censura” al governo presentata dalla France insoumise di Mélenchon, e sostenuta anche da ecologisti e comunisti), per tenere in piedi la compagine di Lecornu. Non si può parlare di “tradimento”, come vorrebbero i melenchonisti, quanto piuttosto della necessità – da parte del partito più “a destra”, diciamo così, tra le forze di sinistra – di evitare che la crisi politica si aggravi, con uno scioglimento dell’Assemblea nazionale seguito da rapidissime elezioni anticipate che gioverebbero soltanto all’estrema destra.
Quelle che abbiamo chiamato le lotte di classe in Francia tuttavia proseguono. La partita non è ancora affatto chiusa. Il Partito socialista potrà, in ogni momento, unirsi a eventuali altre mozioni “di censura” e far cadere il governo. Tutto dipenderà da come andranno le trattative parlamentari, punto per punto, sul budget 2026; e del resto in esse sarà coinvolta l’intera sinistra. Intanto – e questo è fondamentale – le realtà sociali autorganizzate e le forze sindacali potranno nuovamente farsi sentire, come già accaduto di recente, per spingere verso soluzioni nell’interesse delle grandi masse e non in quello del padronato e di pochi ricconi.








