Un libro agile, convincente, lontano mille miglia dal peso delle pubblicazioni specialistiche e dalla noia delle biografie modaiole. Francesca Albanese, con Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina (Rizzoli 2025), presenta la sua esperienza di relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato. Albanese, che non fa sconti a nessuno, neanche ai colleghi o a se stessa, ci dimostra che si può spendere bene l’impegno professionale senza perdere l’umanità. E anche che si può essere umani senza essere pressappochisti.
Per chi vuol saperne di più sulla Palestina, questo è uno strumento in presa diretta sulla realtà, con uno sguardo di fondo che ha una formazione occidentale, ma che sul campo è diventato consapevole e autocritico; uno sguardo laico e rispettoso delle religioni. Per chi già frequenta il tema, è un ricostituente che serve a fare i conti con certe immagini comode. Per i giuristi, come l’autrice, è una bella strapazzata che li colpisce sul lato debole, e se lo meritano: devono toccare con mano come si può essere preparati, seri, professionali senza cadere nel cinismo e nella vuota ginnastica logico-combinatoria.
Polaroid da Gerusalemme, questo il titolo del libro quando l’aveva immaginato. È un bene, quando chi scrive condivide i progetti e mette in chiaro l’attività di preparazione. È ancora meglio quando, come qui, chi scrive condivide il cuore pulsante del suo lavoro, perché lo riconosce nelle vite degli altri. E allora compaiono persone del popolo, magari conosciute per caso, e poi militanti e intellettuali. Compaiono luoghi, contesti. Tutto con lo sforzo di capire, col proposito di contribuire a cambiare. L’autrice si confronta con opinioni diverse, studia le ricerche più avanzate, decide persino di immergersi con pazienza, accettando tempi e modi, in un caffè arabo greve di odori, che diventa la fonte inesauribile di storie, incontri, chiarimenti a muso duro. È uno sforzo che paga.
Ecco gli studi legali ispirati alla critical race theory, le spiegazioni ben fatte sul genocidio e sugli strumenti del diritto internazionale, le riflessioni senza censure. Ecco chiarite la subalternità, la segregazione, la negazione umana, in un quadro dove ogni cosa prende il suo posto. È un posto conflittuale per ogni persona e persino per le pietre, perché le rovine, specialmente a Gerusalemme, sono oggetto di contese storiche e archeologiche a fini di potere, di controllo del territorio. Ecco anche la questione, tremenda, della trasmissione intergenerazionale dei traumi – un vero buco nero imminente, una cosa che peserà sul futuro dei popoli –, insieme al colonialismo immateriale, che rischia di riguardarci presto ovunque, anche in Italia, con la deriva inquisitoria dei reati di opinione.
Ma c’è anche l’effetto terapeutico del diritto, della giustizia. La giustizia, sì, però quella vera, perché l’imparzialità, ci spiega Albanese, quando una parte opprime l’altra va ripensata per bene: “L’imparzialità non consiste nel fingere di non avere un’opinione di fronte a delle atrocità”. Vengono in mente certi funambolismi verbali, sul genere della “equivicinanza”, una furberia italiana. Invece la giustizia quella vera fa bene a tutti, ma proprio tutti: “Nella liberazione del popolo palestinese dall’oppressione dell’apartheid c’è la chiave per la liberazione degli stessi israeliani”.
Liberazione? Un momento. Fra i punti di forza del volume, adesso, c’è anche la certezza che all’oppressione dei palestinesi nessuno può dirsi disinteressato, perché il sistema sociale della prevaricazione è una linea del colore sottile e occulta. Quel che accade in Palestina, scrive Albanese, “non è un conflitto: al massimo può essere visto come un conflitto con l’umanità”. Quello che sta succedendo realizza lì, in grado estremo, una prevaricazione sociale diffusa dappertutto, anche qui, “che trasforma il lavoro in precariato e i diritti in privilegi, che fa in modo di alienarci gli uni dagli altri, rendendoci tutti più fragili e insicuri; che considera la solidarietà un atto sovversivo e l’empatia una forma di disfunzione mentale e sociale”.
Pensiamoci. Le mobilitazioni imponenti in atto in questi giorni hanno messo insieme mondo del lavoro e dell’università, intellettualità raffinate e persone che sanno usare non più di poche parole, compagneria coi capelli bianchi e “maranza” minorenni, e ancora portuali dai modi spicci, genitori allegri coi bambini in braccio, detenuti col permesso di uscire per lavoro che, per scioperare, restano in galera. Forse le mobilitazioni hanno funzionato perché in tanti questa linea del colore l’hanno capita, o magari l’hanno solo intuita senza riuscire ancora a nominarla. Chi pedala con le pizze sulla schiena, sente da sé che l’oppressione ha vari modi e gradi di intensità, oppure aspetta le lezioni degli intellettuali? Di quella linea del colore e di quel sistema, tanti hanno sentito l’odore inquietante, come la preda sente su di sé l’appetito del carnivoro. Ed è successo qualcosa.












