Dopo lo scampato pericolo in Romania – dove alle presidenziali dello scorso 18 maggio si è affermato l’europeista ex sindaco di Bucarest, Nicușor Dan, contro il nazionalista George Simion (vedi qui) – l’Unione europea non è riuscita a cavarsela nella Repubblica ceca. Gli scorsi 3 e 4 ottobre, a Praga e dintorni, ha infatti vinto le elezioni legislative, per designare i nuovi membri della Camera bassa, il partito del miliardario populista Andrej Babis, Azione dei cittadini scontenti, che – dopo essersi affermato lo scorso anno alle europee e alle regionali – ha conseguito il 35% dei consensi, superando nettamente l’alleanza di centrodestra, Spolu (“Insieme”), guidata dal capo del governo uscente, Petr Fiala, più vicino all’Europa e, al contrario di Babis, favorevole al sostegno all’Ucraina. Spolu ha visto nettamente ridimensionato il suo risultato, crollato a circa il 23% dei voti dal 27,8% delle precedenti elezioni del 2021. Infine, i liberali di Stan, che in precedenza erano stati al governo nella coalizione di Fiala, hanno conseguito l’11%. L’affluenza alle urne è stata del 68,89% degli aventi diritto.
Amico ed emulo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump – il suo slogan è “mettere i cechi al primo posto”, promettendo loro un rafforzamento delle protezioni sociali –, Babis era già stato alla guida del Paese, dal 2017 al 2021, anno in cui alle elezioni venne sconfitto di misura appunto da Fiala. Non si tratta dunque di una novità per la patria di Franz Kafka, che si ritrova con un governo filorusso di destra, che, per poter governare (servono centouno seggi su duecento, e il partito di Babis ne ha ottenuti solo ottantuno), avrà bisogno di allearsi con il peggio del peggio, ovvero con l’estrema destra di Spd, Libertà e democrazia diretta – Tomio Okamura (7,9%) – e con un’altra formazione di destra, Motoristas – Automobilisti per se stessi (6,8%) –, curioso partito che ha fatto della lotta alle politiche ambientaliste la propria bandiera, sostenendo l’uso del carbone, dell’automobile sempre e comunque, e fautore della cancellazione di tutte le piste ciclabili.
“Ci aspetta probabilmente un governo guidato da Andrej Babis, ma la domanda è con chi si alleerà” – ha dichiarato Otto Eibl, analista dell’Università Masaryk di Brno, citato dal quotidiano “Avvenire”, anche se è verosimilmente da escludere un’intesa con Fiala. Babis, 71 anni, di origine slovacca, è uno degli uomini più ricchi del Paese, fondatore e unico proprietario della holding di Agrofert, il più grande gruppo di aziende attive nel settore agroalimentare ceco e slovacco, e il secondo gruppo nazionale di aziende chimiche. Inoltre – e questo è un vulnus per la democrazia ceca – possiede due dei più grandi giornali, “Mladá fronta Dnes” e “Lidove noviny”.
Mentre scriviamo il presidente, Petr Pavel, non ha ancora affidato l’incarico a Babis per formare il nuovo esecutivo. Malgrado le rassicurazioni, riguardo al suo orientamento europeista espresso durante il precedente incarico, non è un mistero per nessuno che, con Babis, la Repubblica ceca si avvicinerà all’Ungheria e alla Slovacchia, com’è noto contrarie agli aiuti all’Ucraina e alle sanzioni contro la Russia. Il leader nazionalista si è espresso recentemente anche contro la cosiddetta “iniziativa ceca”, con la quale Praga ha assicurato oltre due milioni e mezzo di proiettili di artiglieria a Kiev nell’ultimo anno, aiuto che potrebbe essere revocato. Se questo quadro fosse confermato, del gruppo di Visegrád – nato nel 1991 al fine di preparare l’ingresso dei quattro Paesi nell’Unione europea – solo la Polonia continuerebbe a esprimere un governo europeista, con Donald Tusk.
Tutto questo mentre la situazione economica e sociale della Repubblica ceca non è affatto delle migliori. Inflazione elevata e aumento del costo della vita hanno minato la fiducia della popolazione nei riguardi di Fiala. Responsabile di questa situazione, è anche l’invasione russa dell’Ucraina, che ha provocato un aumento dei prezzi e dell’inflazione, schizzata al 15%. L’inversione di tendenza si è verificata alla fine dello scorso anno, quando i prezzi si sono notevolmente abbassati con una contemporanea crescita dell’economia e dei salari, oltre a una riduzione del deficit pubblico dal 5 al 2%. Ma questo non è bastato a Fiala per recuperare la fiducia dei cittadini, né è servito l’allarme da lui lanciato sui rischi riguardanti lo Stato di diritto e il rapporto con le istituzioni comunitarie.
Babis ha anche fatalmente utilizzato l’arma xenofoba contro i rifugiati ucraini accolti dalla Repubblica ceca, circa quattrocentomila, cifra importante, su dieci milioni di abitanti. A mettere un freno a questa deriva antieuropeista potrebbe essere il capo dello Stato, che ha un potere di veto sulle leggi votate dal parlamento. “Chiunque insista affinché la Repubblica ceca esca dalla Nato o dall’Unione – afferma Pavel citato dall’Ispi (Istituto studi politica internazionale) – ai miei occhi danneggia il nostro Paese. E questo è uno dei criteri che prenderò in considerazione quando riceverò una proposta per la composizione del nuovo governo”.
Mentre in Romania il confronto tra europeisti e filorussi prosegue ancora oggi – almeno per il momento, senza violenze da nessuna delle due parti in causa – non si può dire lo stesso per la Georgia, della quale abbiamo scritto più volte (vedi qui, qui e qui). La repubblica euroasiatica, che con il partito Sogno georgiano aveva intrapreso la strada per entrare in Europa, ha poi, con la stessa formazione, fatto marcia indietro, avvicinandosi alla Russia con l’arrivo alla presidenza della Repubblica dell’ex calciatore Mikheil Q’avelashvili, che, nel dicembre scorso, ha preso il posto dell’europeista Salomé Nino Zourabichvili. Lo scorso 4 ottobre, si sono svolte le previste elezioni amministrative, le quali, lungi dall’essere un normale appuntamento elettorale, sono state caratterizzate da violenti scontri di piazza tra i manifestanti antigovernativi e le forze dell’ordine. “Il 4 ottobre – scrive sul sito “Valigia blu” Aleksej Tilman, già impegnato nell’Osce e nel parlamento europeo, e studioso della politica del Caucaso dopo studi svolti a Tbilisi – sono stati eletti i sindaci e i consigli amministrativi di tutte le sessantaquattro municipalità della Georgia. Sogno georgiano è uscito nettamente vincitore dalle urne. A fronte di un’affluenza ferma al 41%, il partito di governo ha ottenuto più dell’81% delle preferenze totali. A Tbilisi – continua Aleksej – il segretario del partito, un altro ex calciatore, Kakha Kaladze, è stato confermato come sindaco per un terzo mandato, con il 71% dei voti”.
Le elezioni sono state boicottate da diverse forze politiche. Solo dodici formazioni hanno preso parte alla competizione elettorale, un netto calo rispetto alle ben quarantatré delle amministrative del 2021. A determinare questo scenario, è stata la mancata partecipazione al voto di due dei quattro gruppi di opposizione, oltre che di altre forze politiche minori. Questa scelta è stata dettata dall’idea di non legittimare il sistema di potere costruito da Sogno georgiano: il che però ha determinato l’assenza di competizione in alcuni seggi elettorali, dove il partito del presidente ha ottenuto il 100% dei voti. Che cosa potrà scaturire da questa crescente tensione tra il governo e un’opposizione divisa ma unita dall’europeismo, è difficile da prevedere; però certamente il Paese caucasico sembra avere preso una china pericolosa. Il premier, Irak’li Kobakhidze, sostiene che la Georgia non rinuncia all’obiettivo di aderire, entro il 2030, all’Unione europea, ma con il 20% del territorio occupato dai russi l’impresa appare complicata, per usare un eufemismo. Se a questo aggiungiamo che una pace della Russia con l’Ucraina (e dunque con l’Occidente) sembra ancora molto lontana, il caos che regna nella patria di Stalin sembra destinato a durare.








