Donald Trump ha presentato decine di volte il suo “piano Witkoff” (dal nome dell’inviato Usa in Medio Oriente), annunciando un imminente accordo e, soprattutto, la Pace. Ad agosto, le dichiarazioni di Matthew Miller, portavoce della Casa Bianca durante la presidenza di Joe Biden, avevano rivelato le strategie utilizzate da Israele per far affondare i negoziati e darne la colpa a Hamas. Lo aveva fatto più e più volte Netanyahu, fino a portare Washington sul punto di dichiarare al mondo le responsabilità del primo ministro israeliano. Tra la fine della presidenza Biden e l’inizio di quella di Trump, il cessate il fuoco è arrivato. Ma il nuovo presidente non ha fatto alcuna pressione sull’alleato perché stesse ai patti e si sedesse al tavolo per negoziare l’accordo definitivo, e i bombardamenti di Tel Aviv sono presto ricominciati.
Da allora, gli annunci degli Stati uniti si sono ripetuti, sempre uguali: minacce di scatenare l’inferno da un lato e promessa di una pace da raggiungere “in pochi giorni” dall’altro. Nella realtà, Israele ha sempre avuto il sostegno di Washington, ma, mentre si è spesso, internazionalmente, sopravvalutata la capacità di controllo degli Usa su Tel Aviv, al contrario si è sottovalutata quella dello Stato ebraico sulle decisioni di Trump. La sensazione che si ha è che i due presidenti abbiano atteso il momento giusto per annunciare un “piano di pace” che non è altro che una richiesta di resa presentata a Hamas. E sostenuta da larga parte del mondo. Più montava la rabbia globale per il genocidio a Gaza più aumentava, in effetti, il timore che la “questione palestinese” si trasformasse in una faccenda umanitaria e non più politica. Non che non abbia priorità assoluta fermare il massacro e fare entrare gli aiuti umanitari. Ma non è certo questa la pace che i palestinesi cercano, quella a cui hanno diritto. La pace è giusta o non è pace.
Nel piano presentato dal presidente degli Stati Uniti non si parla della fine dell’occupazione israeliana sui territori palestinesi, ma si pretende che la popolazione non la combatta. È questo il significato della “deradicalizzazione” pretesa da Washington. Non solo Hamas disarmata e in esilio ma un organismo internazionale, guidato dagli Stati Uniti e dallo stesso Trump, che si assume la responsabilità di assicurarsi che non si ristabilisca una resistenza. Anche perché magari, questa volta, potrebbe rivolgere la propria rabbia nei confronti dell’amministrazione controllata imposta proprio dagli Stati Uniti. Che il piano possa aprire la strada a un mandato americano, lo sanno bene a Gaza. Ma al momento l’alternativa è morire di bombe e di fame. La guida degli Stati Uniti e il sostegno di buona parte del mondo sono garanzia di insuccesso. Uno dei motivi principali per cui non è mai nato uno Stato palestinese è proprio il sostegno degli Usa, che hanno giocato illecitamente il ruolo di arbitro imparziale.
Anche questa volta, Washington ha presentato una proposta che è stata di fatto concordata e stabilita insieme con una delle due parti sulle cui posizioni si dovrebbe trovare un compromesso. Il caso vuole che si tratti della parte più forte, quella che sta commettendo un genocidio, mentre i palestinesi non sono stati interpellati. Né Hamas, né Fatah, né associazioni, né formazioni, né leader, né indipendenti.
La caratteristica del progetto è quella di mantenere fumose le questioni più importanti e chiarire, invece, quelle relative a potere e affari. Il quotidiano israeliano “Ynet” ha scritto ieri che “l’accordo proposto potrebbe non essere perfetto ma garantisce tutti gli obiettivi chiave che Israele si era prefissato […]. In breve, offre più di quanto chiunque avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi, e il fatto che Hamas si opponga è la prova del suo valore […]. Questo accordo è filoisraeliano e rappresenta il miglior risultato possibile per porre fine alla guerra. La vera prova ora risiede nella risposta di Hamas e Qatar: se accettato, questo accordo potrebbe rimodellare non solo Gaza, ma il futuro del Medio Oriente e persino gli Accordi di Abramo”.
Non si parla delle conseguenze per Israele, che, mentre si è volentieri sobbarcato i costi per la distruzione “lunare” della Striscia, non caccerà un dollaro per la ricostruzione. Il piano potrà avere un’enorme conseguenza sul normale iter di giustizia internazionale al quale Israele e i suoi leader sarebbero sottoposti per le accuse di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e per genocidio. Non è da escludere che le pressioni internazionali costringano in qualche modo la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia a lasciar perdere la questione in un’ottica di “riappacificazione”. E a favorire il processo potrebbe essere l’Autorità nazionale palestinese “riformata”. È questa la parola magica che continuano a utilizzare internazionalmente nel tentativo di convincere Israele a rivalutare il ruolo di Abu Mazen. Nessuno sa bene di quale tipo di riforme si parli, ma è ovvio che un’Autorità “riformata” significhi ancor più suddita di Tel Aviv, fino a diventare un suo braccio politico e armato nei territori palestinesi occupati. Così che rinunci a qualsiasi tipo di rivalsa presso la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia.
In questo modo, forse, potrà un giorno sostituire alla guida di Gaza il “comitato palestinese tecnocratico e apolitico” che Trump e Netanyahu stanno preparando. Un comitato che verrà supervisionato da un “organismo internazionale di transizione” che l’onnipresente Trump ha creato su misura per se stesso: il “comitato di pace”, presieduto proprio dal presidente statunitense. Dei leader e capi di Stato di cui vi faranno parte, conosciamo al momento solo un nome: Tony Blair. Il curriculum di “pace” dell’ex primo ministro britannico non ha nulla da invidiare a quello del tycoon e in Medio Oriente lo conoscono bene, perché è stato uno degli architetti dell’occupazione dell’Iraq, costata vite e distruzione.
Trump e Blair rappresentano, per il momento, i vertici dell’organismo che dovrebbe controllare di fatto la Striscia. Del comitato palestinese non si sa niente, se non che sarà “responsabile della gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle amministrazioni comunali per la popolazione di Gaza”. Chi deciderà i nomi? Quali poteri potrà realmente esercitare? In compenso, sappiamo che i piani di ricostruzione di Gaza saranno “entusiasmanti” e, ancora una volta, a guidarli sarà Trump. Sono stati già elaborati progetti e proposte di investimento da società private in giro per il mondo, e il presidente sarà l’unico membro della commissione giudicatrice. L’unica sorpresa, probabilmente, è che nel piano non compaia la Ghf, la fondazione israelo-statunitense che si occupa della gestione degli aiuti umanitari a Gaza e che ha causato più di duemila vittime tra le persone in fila per il cibo. Ma non è certo escluso che il “comitato di pace” possa decidere, dopo una prima fase, di riassegnarle il monopolio.
All’inizio, insieme alla liberazione di tutti gli ostaggi israeliani e quella di 250 prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo, più 1700 sequestrati da Gaza dopo il 7 ottobre, le Nazioni Unite dovrebbero occuparsi dell’ingresso degli aiuti. Che comunque non saranno illimitati. Secondo i piani, i membri di Hamas che vorranno rinnegare la lotta armata otterranno l’amnistia.
Israele dovrà ritirarsi ma di poco, fino a quando non saranno soddisfatte le condizioni per il ritiro completo e graduale. Anche in questo caso, nonostante la questione abbia fatto saltare molte negoziazioni in passato, non esiste una specifica sulle tempistiche del ritiro completo. Cosa che potrebbe aprire alla possibilità di una presenza israeliana stabile. Non si parla neanche dello stop all’annessione della Cisgiordania, a cui Tel Aviv sta lavorando e che gli alleati di Netanyahu vogliono ottenere a tutti i costi. Si dice, invece, che nessuno verrà costretto a lasciare Gaza. Ma la formula della “emigrazione volontaria”, come sappiamo, è utilizzata anche da Israele per mascherare la pulizia etnica.
All’interno di Hamas le posizioni sono divise tra chi vorrebbe sottoscrivere l’accordo e chi, invece, preferirebbe morire piuttosto che firmare la resa. Entro pochi giorni, il movimento islamista dovrebbe consegnare la sua risposta. Dopo l’annuncio di Trump, il premier Netanyahu, rispondendo in ebraico alle domande di un giornalista, ha garantito che uno Stato palestinese non ci sarà e che l’accordo è assolutamente vantaggioso per Israele.









