Ma quanto costa ai contribuenti italiani l’ex Ilva di Taranto? Quanto perde ogni giorno? Per rimettere in funzione gli altiforni oggi fuori uso, sequestrati o abbandonati, servono ingenti risorse. Ne vale la pena? Sapendo che serviranno almeno dieci miliardi per portare avanti la decarbonizzazione dell’acciaieria. Perché si ha la sensazione che, riguardo al “gioiello” dell’ex acciaieria a ciclo integrale più grande d’Europa – che si pensava di cedere a un miliardo di euro, adesso che si sta per chiudere la gara, la quale servirà a incanalare la trattativa per la sua vendita (con l’obbligo vincolante della decarbonizzazione) –, più che incassare, lo Stato sia disposto a “pagare” il sacrificio dei “compratori”, pur di disfarsi di Taranto.
Di certo, l’ex Ilva produce oggi meno di due milioni di tonnellate di acciaio all’anno quando ne dovrebbe produrre almeno sei. La fase della “transizione ecologica” dovrebbe durare, sulla carta, fino alla scadenza della nuova Aia (Autorizzazione integrata ambientale), cioè dodici anni. Ma le autorità locali chiedono di ridurre i tempi del passaggio dagli altiforni ai forni elettrici a sei, otto anni (forni alimentati a gas, quando ormai le acciaierie del nord Europa sono alimentate a idrogeno).
La data di chiusura della gara per individuare l’interlocutore con cui trattare, è stata allungata fino a venerdì prossimo, 26 settembre, e fino a oggi sono solo due i possibili acquirenti. Stiamo parlando di un vuoto cosmico, di promesse e impegni generici. Nulla di definito, nessuna certezza e solo tante chiacchiere.
Per essere chiari, a luglio, è stata approvata solo l’Aia (la nuova Autorizzazione integrata ambientale, durata: dodici anni), con la contrarietà degli enti locali, di alcune forze politiche e delle associazioni ambientaliste (Peacelink ha già raccolto venticinquemila euro per il ricorso al Tar). L’accordo di programma sponsorizzato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, non è stato approvato, e alla fine dei diversi incontri, a Roma e a Taranto, è stato firmato solo “un promemoria d’intenti”. Cioè, nulla. E anche la gara che si chiuderà giovedì sancirà l’apertura della trattativa tra governo e possibile acquirente. Quindi nulla di definito.
Come se tutto questo non bastasse, adesso gli amministratori straordinari di Acciaierie d’Italia, ex Ilva, hanno chiesto ai sindacati di aumentare del 50% il numero dei cassaintegrati, dagli attuali 3.062 a 4.550 (di cui 3.803 solo a Taranto). I sindacati metalmeccanici sono all’angolo. Contrari alla cassa, ma senza un piano, propongono di avviare la decarbonizzazione costruendo quattro impianti di Dri (“preridotto”, cioè ferro che nei forni elettrici si trasforma in acciaio). In un documento mandato ai gruppi parlamentari di tutti i partiti, i sindacati metalmeccanici (Fim, Fiom e Uilm) hanno riassunto la loro posizione: “Il piano per l’ex Ilva deve prevedere l’integrità del gruppo siderurgico, il risanamento ambientale, la decarbonizzazione e le garanzie occupazionali”.
Mercoledì 24 si dovrebbe svolgere il nuovo round del confronto tra azienda e sindacati. I metalmeccanici chiedono di spostare l’incontro a palazzo Chigi, perché il governo deve fare chiarezza sulle prospettive della ex Ilva, garantendo i livelli occupazionali.
Sul sito di Peacelink (associazione pacifista e ambientalista), si spiegano le ragioni dell’opposizione di amministrazioni locali e associazioni, al rigassificatore nel porto di Taranto. Secondo la Direttiva Seveso III – normativa europea per prevenire incidenti rilevanti che includono esplosioni, incendi e dispersioni criogeniche, limitando le conseguenze per la salute umana e l’ambiente – i rigassificatori, gestendo e immagazzinando gas infiammabili come il gas naturale liquefatto, sono considerati stabilimenti che possono presentare pericoli rilevanti. Peacelink ricorda che “a 1,7 chilometri dalla darsena del porto dove dovrebbe essere ancorato il rigassificatore, c’è la torcia dell’Eni”. E anche che “Taranto è una base Nato di transito di sottomarini a propulsione nucleare”. Acciaieria, raffineria, depositi chimici e impianti energetici. La città dei due mari è un concentrato di rischi ambientali e industriali.
In una nota dell’inizio della scorsa settimana, i commissari straordinari di Acciaierie d’Italia, hanno spiegato le ragioni della richiesta di ulteriore cassa integrazione: “A fronte di un organico complessivo pressoché stabile (9.741) lo stabilimento di Taranto e le unità produttive a valle dello stesso, marciano con un assetto che risulta essere contraddistinto e condizionato da una produzione di ghisa gravemente insufficiente e incoerente con i costi di esercizio e di gestione”.
Ma quanto perde Taranto? Secondo un dossier di “Milano Finanza”, “tra i settanta e gli ottanta milioni di euro al mese”. E questo a fronte di un fatturato inferiore ai centocinquanta milioni (costo d’esercizio). I costi operativi sono aumentati da 1,6 miliardi del 2020 a oltre i tre miliardi di euro del 2021. Scrive “Milano Finanza”: “I debiti per la gestione hanno raggiunto i 5,4 miliardi di euro nel 2025”. In diciassette mesi di commissariamento straordinario, l’ex Ilva ha bruciato due miliardi di euro.
Ma altre fonti (“Il Foglio”) parlano di cifre ancora più drammatiche: tra i venti e i cinquanta milioni di euro al giorno, con la produzione minima (un milione di tonnellate di produzione di acciaio) e i costi fissi del personale. E oggi effettivamente è in funzione un solo altoforno (Afo 4) che dovrebbe fermarsi per la manutenzione a fine anno, quando dovrebbe ripartire Afo 2. Nei prossimi giorni, la procura di Taranto dovrebbe decidere per il dissequestro di Afo 1, bloccato dal maggio scorso per un incendio, e occorreranno almeno sei mesi per rimetterlo in funzione. Afo 3 non esiste più, mentre Afo 5, che da solo potrebbe garantire una produzione di quattro milioni di tonnellate d’acciaio all’anno, da anni è abbandonato.
Ma a Taranto, in attesa degli appuntamenti dei prossimi giorni, fa notizia in queste ore il mistero dei quattro droni “non autorizzati” che hanno sorvolato l’area della ex Ilva venerdì sera. Secondo la ricostruzione degli eventi, la vigilanza interna dell’acciaieria ha avvertito le forze di polizia e i carabinieri della presenza dei droni.








