C’è qualcosa di diabolico nella perseveranza con cui Macron continua a imporre alla Francia primi ministri di destra o centristi – o tutt’e due le cose insieme, come nel caso dell’ultimo uscito dal cappello, il fedelissimo Sébastien Lecornu, un tipetto che a sedici anni non aveva trovato di meglio se non iscriversi all’Unione per un movimento popolare, diventato poi l’attuale partito dei Repubblicani. Ancora legatissimo all’iper-corrotto ex presidente Sarkozy, da cui è andato a consultarsi per assicurarsi il sostegno almeno della destra (si consideri che al precedente primo ministro Bayrou, nella finale votazione sulla fiducia da lui richiesta, sono mancati una ventina di voti perfino da quella parte dello schieramento parlamentare), Lecornu sta ora tentando la quadratura del cerchio: come tenere insieme la destra moderata, appunto, e il Partito socialista, così da evitare che si materializzi, nei suoi confronti, quella tagliola che si chiama “voto di censura” in aula, unica chance, nel sistema francese, per mandare a casa un primo ministro già pienamente in carica nel momento in cui viene nominato dal presidente.
Questo rientra nelle storture del presidenzialismo: il cosiddetto premier è in effetti una specie di segretario del capo dello Stato, un suo dipendente. Quando, com’è accaduto in passato con i governi detti “di coabitazione”, il primo ministro poteva contare su una propria maggioranza parlamentare, riusciva ad avere qualche autonomia (peraltro non su ogni dossier, per esempio la determinazione della politica estera è comunque appannaggio del presidente); oggi che l’Assemblea è divisa in tre blocchi, Macron può ritenere di essere ancora quello che fa il gioco, restando – del resto come da Costituzione – sia il rappresentante più alto delle istituzioni sia il capo di una forza politica.
Eppure, dopo lo sciagurato (per lui) scioglimento dell’Assemblea nel 2024, che gli ha tolto anche quella maggioranza relativa di cui godeva, sarebbe stato piuttosto semplice arrivare a una soluzione, almeno parlamentare, della crisi: tanto più che un governo che affronti la questione del dissesto delle finanze, in primis mediante un aumento delle entrate fiscali, è qualcosa di non più rinviabile (e proprio l’altro ieri è arrivata, del tutto prevista, la degradazione del debito francese da parte di Fitch). Sarebbe stato ovvio guardare a sinistra – considerato che quel blocco, sia pure non troppo coeso, era arrivato in testa alle elezioni – rinunciando al mantra del macronismo fin dalla sua nascita, quella “politica dell’offerta” che consiste nell’abbassare le tasse alle imprese e ai ricchi, nella speranza che questi facciano poi “sgocciolare” un po’ di soldi nell’economia nazionale sotto la forma di investimenti. Una speranza tradottasi piuttosto in un contributo al dissesto delle finanze statali, messe sotto stress anche dalla pandemia degli anni scorsi, o dalla rinuncia alla carbon tax a seguito della rivolta dei “gilet gialli”, che non ci stavano a pagare di più per far girare i loro motori diesel.
Oggi il caso francese mostra nel modo più chiaro come un sistema presidenzialista possa diventare esso stesso il principale fattore di instabilità. Infatti, mentre in una repubblica parlamentare le forze politiche di centro e di sinistra (che tutte insieme avrebbero una maggioranza) sarebbero state spinte alla ricerca di un compromesso basato su concessioni reciproche, la presenza di un blocco centrale orientato a destra, guidato da un presidente che non intende smentire se stesso, può diventare impermeabile al compromesso proprio perché la presidenza si ritiene investita direttamente dal popolo. È insomma la quota di bonapartismo inerente al presidenzialismo, voluto a suo tempo da De Gaulle, che favorisce l’impasse attuale.
Il Partito socialista, sebbene attaccato da Mélenchon per i suoi supposti tradimenti, in realtà sta tenendo il punto. Il suo non avere “censurato” Bayrou nel momento della presentazione del budget, all’inizio del 2025, rientrava in una semplice carità di patria, diciamo così; lo si è visto oggi, quando dinanzi al progetto di una manovra “lacrime e sangue” da quarantaquattro miliardi, i socialisti hanno opposto un netto rifiuto, provocando di fatto la caduta di Bayrou, e proponendo a loro volta una manovra meno drastica da ventidue miliardi, il cui punto qualificante è dato dall’introduzione di una imposizione fiscale del 2% sui patrimoni superiori ai cento milioni di euro. Una tassa sulla fortuna (già presente in misura più ridotta, ma abolita da Macron nel 2018), che renderebbe più equa la manovra di aggiustamento dei conti pubblici.
Ora tutto starà nel vedere fino a che punto potrà spingersi Lecornu in questa negazione della politica economica macroniana, cioè fin dove il suo capo gli consentirà di arrivare. Diversamente, si andrà a un altro muro contro muro, quindi probabilmente a nuove elezioni anticipate, il cui esito già scontato sarà quello di un ulteriore incremento dell’estrema destra di Marine Le Pen.
Perciò saggezza vorrebbe che si arrivi alla presentazione di un budget di compromesso, a nostro parere non solo tra il blocco centrale e i socialisti ma con l’apporto anche degli ecologisti e dei comunisti. Unici fuori dal gioco, quelli della France insoumise di Mélenchon, che si ostina a chiedere le dimissioni immediate del presidente della Repubblica, puntando lui stesso alla presidenza. Ma ammesso e non concesso che riuscisse ad arrivare al ballottaggio (finora, nelle precedenti tornate, al massimo è arrivato terzo), quasi di sicuro perderebbe la partita contro la candidatura di un’estrema destra a cui oggi lo stesso Medef, cioè la Confindustria francese, ha spalancato le porte. La convergenza oggettiva tra un interesse alla stabilità purchessia da parte dei poteri forti e una mobilitazione dal basso anti-Macron, che, pur avendo mille ragioni dalla sua, non è in grado di costituire la base di un’alternativa (la recente iniziativa del “Blocchiamo tutto”, nata in modo spontaneo e poi egemonizzata dalla France insoumise, avendo riguardato soltanto duecentocinquantamila persone in tutto il Paese), va assolutamente evitata. Per farlo, è necessario cominciare a dare una risposta politico-parlamentare al diffuso malessere sociale.
Macron dev’essere dunque costretto ad accettare un compromesso sulla prossima manovra finanziaria, nel segno di una maggiore equità fiscale. Va fatto pesare che, al di là del suo ultimo tirapiedi, non ci sono altri nomi da estrarre dal cappello, e che un secondo scioglimento dell’Assemblea, in questa situazione, vorrebbe dire mettere in conto le sue stesse dimissioni. Intanto, per il 18 settembre, è annunciata una mobilitazione indetta da tutte le sigle sindacali, e non lanciata da alcuni volenterosi sul web.








