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Erdogan e il tabù del genocidio

Perché il riconoscimento da parte degli Stati Uniti del massacro di circa un milione e mezzo di armeni dell’Anatolia, avvenuto tra il 1915 e il 1921, ha fatto infuriare il presidente turco

26 Aprile 2021 Riccardo Cristiano  660

Si potrebbe dire che alla Casa Bianca hanno avuto bisogno dei famosi “tempi biblici” per rendersi conto che quello degli armeni fu genocidio, visto che è passato più di un secolo. Ma se la riluttanza a dare questo colpo ad Ankara si poteva capire al tempo in cui in Turchia governavano i nazionalisti e i militari, più strano è che sia ritenuto un affronto ora che in Turchia governerebbero i neo-ottomani. La questione che insanguinò l’odierna Turchia all’inizio del Novecento, è solitamente letta come ferocia islamica contro i cristiani. Ma la sua origine è nel nazionalismo di chi pose fine all’esperienza ottomana, il triumvirato dei Pascià, il Comitato Unione e Progresso e i Giovani Turchi che reggevano il morente impero; nazionalisti che vedevano nei cristiani le quinte colonne degli imperi avversi alla nascente nazione turca, riservata a un popolo che ha un capo e una religione.

Dunque Erdogan oggi potrebbe vedere nel passo di Biden un riconoscimento dell’importanza di un ritorno ottomano contro i nazionalismi malati, che proprio in Anatolia mostrarono tutta la pericolosità di questa malattia. Sotto il sangue che scorse a fiumi a quel tempo, infatti, si vedono anche altri nazionalismi, usati come manovalanza da chi seppe muovere, magari con la molla della religione, le masse rurali per assicurarsi il controllo di quei territori.

E l’ottomanesimo? Certo, il sultano era tale, come la sua fede era quella islamica. Ma tra i primi passi sultanali, dopo la conquista di Costantinopoli, ci fu quello di andare a caccia del profugo che avrebbe potuto riaprire la sede del patriarcato ortodosso, come appunto fu. Il monaco Giorgio Gennadio detto Scolario, figura di primo piano prima della conquista islamica, fu catturato e deportato. Il sultano lo andò a cercare e, nonostante le sue resistenze, lo nominò patriarca ortodosso. Con gli armeni, invece, si decise che, pur avendo il loro patriarcato lontano dalla capitale, a Istanbul avrebbero avuto la loro sede arcivescovile.

Interessante è anche quanto accadde con gli ebrei dopo l’espulsione dalla “cattolicissima” Spagna nel 1492: se nel 1430, a Salonicco, si contavano duemilacinquecento famiglie ebree, un viaggiatore tedesco nel 1553 scrisse che si contavano ventimila maschi ebrei, probabilmente ben più dei musulmani. Decine di sinagoghe e interpretazioni diverse dell’ebraismo contribuirono a plasmare la città, la sua società e la sua arte, come anche le pietanze. Fu la Salonicco cosmopolita, come fu cosmopolita la perla delle riforme ottomane, Beirut, città dei primi giornali, delle lotte dei portuali, della prima traduzione in arabo della Bibbia.

È interessante quanto riferisce il professor Alan Mikhail al riguardo del sultano Bayazid, che ai tempi dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna avrebbe detto: “E dite che è un re saggio Ferdinando, che impoverisce il suo paese e arricchisce il nostro!”. Lui sapeva che la filosofia di governo nota come il “Cerchio della giustizia” si esprimeva così: “Non c’è potere senza esercito/ non c’è esercito senza denaro/ non c’è denaro senza prosperità/ non c’è prosperità senza giustizia e buona amministrazione”.  Era questo un principio caro agli ottomani ai tempi di un sultano, Selim, a sua volta molto caro a Erdogan, che gli ha dedicato il nuovo ponte di Istanbul.

Ma del cerchio della giustizia non c’è traccia nella sua Turchia, perché in realtà Erdogan più che con il neo-ottomanesimo ha a che fare con il neo-nazionalismo radicale. Chi gli consente di governare, dopo i clamorosi arretramenti elettorali, sono loro, i neo-nazionalisti. Ecco perché Erdogan non può che rendere più grave la “fermezza” rispetto ai nazionalisti di ieri che, come lui ora, non hanno mai consentito che si parlasse di genocidio armeno. Il suo sogno non è neo-ottomano, piuttosto panturco, un impero che si estenderebbe a oriente, dal Bosforo alla Cina. Ne ha scritto, con estrema lucidità, padre Vladimir Pachkov in La Civiltà Cattolica: “La Turchia non è attiva solo nella regione geograficamente vicina del Caucaso meridionale (l’intervento armato nel Nagorno Karabakh, ndr), e non soltanto con l’aiuto degli azeri – a tale proposito sia i turchi sia gli azeri dicono di essere un unico popolo che vive in due stati diversi – ma anche nell’intera Asia centrale, dall’Iran all’Afghanistan fino alla Russia. Questa regione viene considerata come un tutt’uno, qualcosa di omogeneo, un mondo turco”. Il panturchismo fece la sua comparsa nell’Impero ottomano solo dopo la rivoluzione dei Giovani Turchi, ricorda padre Pachkov: “Tale ideologia venne presentata come alternativa all’ottomanesimo”. Abbandonata dai padri della Turchia, l’idea è tornata dopo il crollo sovietico. È questo il neo-nazionalismo con cui Erdogan pensa di restare in sella, nonostante il crollo della lira turca. E ovviamente non contempla riconoscimenti agli armeni.

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